Da La Repubblica del 31/03/2003
Originale su http://www.repubblica.it/online/esteri/iraqattaccoquindici/zucconi/zuc...
Dopo le rivelazioni sui contrasti tra generali e strateghi della "guerra leggera"
Il Pentagono nella palude. L'autodifesa di Rumsfeld
Il segretario alla Difesa: "E' presto per i necrologi"
di Vittorio Zucconi
"L'UOMO è come la tartaruga - ama dire il segretario alla difesa Donald Rumsfeld - va avanti solo se tira fuori la testa dal guscio". Mai, come in queste ore di impasse nella "invasione leggera" dell'Iraq costretta a passare dall'offesa alla difesa della propria retroguardia, l'aforisma della tartaruga deve essere tornato alla memoria di questo settantenne che è divenuto, più di Bush, più dei generali, più dei sergenti nella sabbia, il volto di una guerra che ha perso ormai quel luccichìo di corsa trionfale che proprio lui le aveva dato. La lepre è diventata tartaruga, e la testa che spunta è la sua. Bastava ascoltarlo agitarsi ieri mattina, lui, "the king of cool", il maestro del sarcasmo freddo, mentre si agitava in quella Fox tv di Murdoch, che è la sua claque, per capire quanto si senta esposto: "Chiedete a chiunque, io ho solo approvato quello che i generali mi hanno proposto".
Non c'è "pistola più fumante" a prova di una guerra che non sta andando "secondo i piani", che ascoltare i generali e i loro superiori civili beccarsi e palleggiarsi le responsabilità dei piani, secondo la famosa formula kennedyana della "vittoria che ha molti padri, mentre la sconfitta è sempre orfana".
I malumori dei generali, già intravisti da giorni, debordano sui media, velati dietro gli anonimati di "alti ufficiali" e "comandanti al fronte", che cominciano, da bravi generali, il fuoco di sbarramento preventivo contro il loro "boss" come il comandante Franks, il cui collo sporge ormai da giraffa più che da tartaruga, chiama Rumsfeld. "Sono stati i civili (leggi: Rumsfled) al Pentagono a cambiare le priorità del piano di attacco e la sequenza dello spiegamento delle truppe, per servire i loro progetti politici, sconvolgendo tutti i meccanismi delicatissimi di una forza armata moderna", dice una "alta fonte" del Pentagono al Washington Post.
Più semplicemente, uno dei tanti sergenti nella sabbia, il Marine James Paiz al fronte, brontola davanti al microfoni della Abc News, mentre con lo spazzolino metallico ripulisce la sua mitragliatrice: "Non è mica tanto facile invadere e occupare una nazione, eh?". Eh no. Ma era stato proprio Rummy, leader del fronte dei chicken hawks, dei falchetti neo conservatori oggi al potere, l'architetto politico di quella "guerra leggera", di quelle unità agili e rapide che avrebbero dovuto sostituire la "guerra pesante" prodotta dal confronto con l'Armata rossa, non certo con i camioncini e i tassì bomba.
"Ci avevano presentato piani ridicoli e antiquati si difende il partito di Rumsfeld come se avessimo dovuto conquistare Mosca, non fare una guerra di liberazione". Appunto. La "dottrina Rumsfeld", ribattezzata nella fissazione militare per gli acronimi "Tpfdd" (Time Phased Force and Deployment Doctrine) era costruita sulla certezza politica della sollevazione degli iracheni, per coprire le spalle alla retroguardia.
Ecco dunque rialzare la testa il problema fondamentale di tutte le guerre a due anime, una militare e una politica. Storia vecchia, dunque, questa della ruggine tra professionisti delle armi e professionisti della politica che riporta di moda il tragico dizionarietto del Vietnam, "palude", "casa per casa", "body count", il conto dei morti e l'accusa classica dei generali ai politici lontani, il "micromanagement", la guerra al dettaglio condotta a 10 mila chilometri dal fronte. Ma precisamente questo, Rumsfeld è ed è sempre stato, un manager, non un von Clausewitz. La sua vita, fino alla guida della farmaceutica Searle, è la storia di un businessman che, dopo un paio di mandati alla Camera dei deputati e un tour come pilota di Marina nella riserva, aveva sempre brillato nella gestione delle grandi aziende o nell'organizzazione del massimo carrozzone statale americano, il Pentagono.
Quarant'anni or sono, nell'America di Kennedy, sarebbe stato chiamato una "testa d'uovo", come Robert McNamara, l'uomo passato dalla Ford auto al Vietnam e uscito con la fama ignominiosa di "colui che conosceva il prezzo di tutto e il valore di niente".
Ma in più, Rumsfeld ha uno scheletro personale nell'armadio. Si chiama Saddam Hussein. Fu lui, e questa è storia ufficiale, l'inviato che Reagan spedì a Bagdad per "normalizzare" le relazioni con il futuro "mostro sanguinario". Fu Rummy a dover incontrare, nel dicembre del 1983, Saddam e Tarek Aziz, promettendo il benevolo interessamento e il sostegno del governo americano in quel massacro che il raìs stava conducendo contro il "Male" del momento, gli Iraniani, a fornire intelligence, foto satellitari, appoggio di navi nel Golfo contro le siluranti di Khomeini. E mentre l'Onu denunciava pubblicamente, nel marzo del 1984, l'uso di gas Sarin e Tabun contro i bambini iraniani mandati a morire dai mullah, armati soltanto di chiavette di plastica appese al collo per aprire le porte del paradiso dove sarebbero presto arrivati a migliaia, dove era Donald Rumsfeld? A colloquio con Saddam, in Iraq (4 marzo 1984). Gli europei vendevano allegramente armi. L'America, secondo le testimonianze giurate davanti al Congresso, i gas.
Quando, dopo essere stato il più giovane ministro della Difesa nella storia con Gerald Ford nel 1975, il vice nominale di Bush Dick Cheney (a proposito: ma dove è finito?) lo chiamò al Pentagono nel 2001 per ristrutturare una forza armata smantellata dai tagli finanziari di Bush il Vecchio e poi dalla indifferenza di Clinton, Rummy portò con sé quel conto da saldare con il Frankenstein che anche lui, vent'anni prima, aveva contribuito a creare. E' dunque un duello personale, una guerra privata, quella che sta combattendo, per saldare alla fine della sua vita il conto col rimorso di avere partorito il "mostro", con un piano di battaglia "spaventosamente inadeguato", secondo il generale Anthony Cordesman. E mai, nella sua fredda, sarcastica certezza, Donald H. Rumsfled avrebbe pensato di trovarsi ora a dover fare quello che le sue truppe sono da giorni costrette a fare in Iraq: non più attaccare, ma difendersi, per salvare il collo di questa guerra lepre diventata tartaruga.
Non c'è "pistola più fumante" a prova di una guerra che non sta andando "secondo i piani", che ascoltare i generali e i loro superiori civili beccarsi e palleggiarsi le responsabilità dei piani, secondo la famosa formula kennedyana della "vittoria che ha molti padri, mentre la sconfitta è sempre orfana".
I malumori dei generali, già intravisti da giorni, debordano sui media, velati dietro gli anonimati di "alti ufficiali" e "comandanti al fronte", che cominciano, da bravi generali, il fuoco di sbarramento preventivo contro il loro "boss" come il comandante Franks, il cui collo sporge ormai da giraffa più che da tartaruga, chiama Rumsfeld. "Sono stati i civili (leggi: Rumsfled) al Pentagono a cambiare le priorità del piano di attacco e la sequenza dello spiegamento delle truppe, per servire i loro progetti politici, sconvolgendo tutti i meccanismi delicatissimi di una forza armata moderna", dice una "alta fonte" del Pentagono al Washington Post.
Più semplicemente, uno dei tanti sergenti nella sabbia, il Marine James Paiz al fronte, brontola davanti al microfoni della Abc News, mentre con lo spazzolino metallico ripulisce la sua mitragliatrice: "Non è mica tanto facile invadere e occupare una nazione, eh?". Eh no. Ma era stato proprio Rummy, leader del fronte dei chicken hawks, dei falchetti neo conservatori oggi al potere, l'architetto politico di quella "guerra leggera", di quelle unità agili e rapide che avrebbero dovuto sostituire la "guerra pesante" prodotta dal confronto con l'Armata rossa, non certo con i camioncini e i tassì bomba.
"Ci avevano presentato piani ridicoli e antiquati si difende il partito di Rumsfeld come se avessimo dovuto conquistare Mosca, non fare una guerra di liberazione". Appunto. La "dottrina Rumsfeld", ribattezzata nella fissazione militare per gli acronimi "Tpfdd" (Time Phased Force and Deployment Doctrine) era costruita sulla certezza politica della sollevazione degli iracheni, per coprire le spalle alla retroguardia.
Ecco dunque rialzare la testa il problema fondamentale di tutte le guerre a due anime, una militare e una politica. Storia vecchia, dunque, questa della ruggine tra professionisti delle armi e professionisti della politica che riporta di moda il tragico dizionarietto del Vietnam, "palude", "casa per casa", "body count", il conto dei morti e l'accusa classica dei generali ai politici lontani, il "micromanagement", la guerra al dettaglio condotta a 10 mila chilometri dal fronte. Ma precisamente questo, Rumsfeld è ed è sempre stato, un manager, non un von Clausewitz. La sua vita, fino alla guida della farmaceutica Searle, è la storia di un businessman che, dopo un paio di mandati alla Camera dei deputati e un tour come pilota di Marina nella riserva, aveva sempre brillato nella gestione delle grandi aziende o nell'organizzazione del massimo carrozzone statale americano, il Pentagono.
Quarant'anni or sono, nell'America di Kennedy, sarebbe stato chiamato una "testa d'uovo", come Robert McNamara, l'uomo passato dalla Ford auto al Vietnam e uscito con la fama ignominiosa di "colui che conosceva il prezzo di tutto e il valore di niente".
Ma in più, Rumsfeld ha uno scheletro personale nell'armadio. Si chiama Saddam Hussein. Fu lui, e questa è storia ufficiale, l'inviato che Reagan spedì a Bagdad per "normalizzare" le relazioni con il futuro "mostro sanguinario". Fu Rummy a dover incontrare, nel dicembre del 1983, Saddam e Tarek Aziz, promettendo il benevolo interessamento e il sostegno del governo americano in quel massacro che il raìs stava conducendo contro il "Male" del momento, gli Iraniani, a fornire intelligence, foto satellitari, appoggio di navi nel Golfo contro le siluranti di Khomeini. E mentre l'Onu denunciava pubblicamente, nel marzo del 1984, l'uso di gas Sarin e Tabun contro i bambini iraniani mandati a morire dai mullah, armati soltanto di chiavette di plastica appese al collo per aprire le porte del paradiso dove sarebbero presto arrivati a migliaia, dove era Donald Rumsfeld? A colloquio con Saddam, in Iraq (4 marzo 1984). Gli europei vendevano allegramente armi. L'America, secondo le testimonianze giurate davanti al Congresso, i gas.
Quando, dopo essere stato il più giovane ministro della Difesa nella storia con Gerald Ford nel 1975, il vice nominale di Bush Dick Cheney (a proposito: ma dove è finito?) lo chiamò al Pentagono nel 2001 per ristrutturare una forza armata smantellata dai tagli finanziari di Bush il Vecchio e poi dalla indifferenza di Clinton, Rummy portò con sé quel conto da saldare con il Frankenstein che anche lui, vent'anni prima, aveva contribuito a creare. E' dunque un duello personale, una guerra privata, quella che sta combattendo, per saldare alla fine della sua vita il conto col rimorso di avere partorito il "mostro", con un piano di battaglia "spaventosamente inadeguato", secondo il generale Anthony Cordesman. E mai, nella sua fredda, sarcastica certezza, Donald H. Rumsfled avrebbe pensato di trovarsi ora a dover fare quello che le sue truppe sono da giorni costrette a fare in Iraq: non più attaccare, ma difendersi, per salvare il collo di questa guerra lepre diventata tartaruga.
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