Da La Repubblica del 25/08/2005
La retromarcia europea sull'import cinese
Il tessile di Pechino sta spaccando il vecchio continente e dimostra che i tetti ai prodotti cinesi servono solo a mantenere in vita produttori inefficienti
di Federico Rampini
Uno strano spettacolo si svolge nei porti europei da Amburgo a Rotterdam, da Genova a Marsiglia. Ci sono montagne di vestiti made in China fermi sulle navi o sulle banchine: 48 milioni di maglioni, 17 milioni di pantaloni, 1,6 milioni di magliette e mezzo milione di camicie. Tutti bloccati dalle dogane perché superano i tetti massimi sulle importazioni cinesi fissati appena due mesi e mezzo fa. In quello spettacolo, nella spaccatura che provoca dentro l'Europa, nei crescenti malumori anti-italiani fra i paesi del Nord, si nasconde una causa dei drammatici dati sull'economia italiana: l'ultimo paese al mondo per la crescita (non-crescita) della sua economia, proprio mentre il numero uno mondiale è la Cina.
La nuova guerra del tessile non è più tra noi e la Cina. Stavolta si combatte tra europei. In Germania lo scontro è arrivato alla Corte costituzionale. L'intervento del supremo tribunale tedesco è stato invocato da una marca di abbigliamento, la Gelco, a cui sono stati sequestrati 38.000 pullover in arrivo da Shanghai. L'amministratore delegato della Gelco, Juergen Richter, si appella alla Corte sostenendo che il blocco delle importazioni dalla Cina infligge un danno ingiusto alla sua azienda, ai suoi dipendenti, e ai consumatori tedeschi che hanno il diritto di vestirsi al costo più basso. Ancora prima che la Corte tedesca si pronunci, un imponente schieramento di governi dell'Europa settentrionale è sceso in campo a difendere le stesse ragioni del signor Richter, dei consumatori europei…e della Cina. Germania, Olanda, Svezia, Danimarca e Finlandia sono in rivolta contro le restrizioni sul made in China – negoziate dal commissario europeo Peter Mandelson il 10 giugno a Pechino – che accusano di essere un grave cedimento alla lobby dell'industria tessile dell'Europa meridionale, soprattutto dell'Italia. In quei paesi del Nord la produzione tessile ha un peso modesto o è addirittura scomparsa. Invece vi hanno peso economico e influenza politica le associazioni dei consumatori, e i colossi della grande distribuzione che si fanno una concorrenza feroce sui ribassi dei prezzi. Inoltre Germania, Inghilterra, Olanda e Finlandia sono grossi investitori ed esportatori di tecnologie in Cina: vendono aerei, centrali elettriche e nucleari, treni ad alta velocità, elettronica avanzata e farmaceutica, servizi finanziari e assicurazioni. Per loro la Cina è un immenso e accogliente mercato, non un rivale. Oggi quei paesi, le loro associazioni di consumatori, la grande distribuzione, le loro multinazionali che esportano e producono in Cina, sono in guerra contro la lobby tessile italiana, accusata di avere strappato a Bruxelles dei limiti al made in China che fanno danni enormi.
Il ribaltamento ispira molte ironie. L'International Herald Tribune vi dedica un articolo intitolato "Svolta in Europa: ora dice che ha bisogno del tessile cinese". L'autore Thomas Fuller scrive che "dopo mesi di lamentele per l'invasione di abbigliamento dalla Cina, ora i dirigenti europei dicono che non possono vivere senza". I più divertiti sembrano i cinesi, naturalmente. Sul giornale Beijing News una vignetta satirica mostra quattro europei seminudi, sul molo di un porto, mentre agitano uno striscione di benvenuto in direzione di una nave cinese carica di vestiti, ancorata al largo. La vignetta coglie una verità: l'autarchia è un vicolo cieco perché una parte crescente dell'industria della moda europea (incluse l'italiana e la francese) hanno smesso da tempo di produrre in patria, e anche volendo non potrebbero più riempire con prodotti locali gli scaffali dei supermercati e dei grandi magazzini. Ralph Kamphoener di Eurocommerce, l'associazione dei grandi distributori, sostiene che "solo grazie al libero commercio internazionale siamo in grado di offrire ai consumatori una scelta dei migliori prodotti al prezzo più basso". Ma in realtà quell'affermazione potrebbe essere più drastica: senza le frontiere aperte molti prodotti essenziali semplicemente scomparirebbero dal nostro mercato, non esistono surrogati nazionali neanche a prezzi molto più alti. Lo dimostra il fatto che, per soddisfare la nostra domanda, le più grandi imprese tessili cinesi dopo avere esaurito in pochi mesi le quote massime, hanno a loro volta delocalizzato rapidamente la produzione in Cambogia, Vietnam e Bangladesh: paesi a cui l'Unione europea non applica tetti d'importazione. Chi pensa di salvare l'industria tessile italiana con il protezionismo, scoprirà che l'alternativa al made in China non è affatto il made in Italy.
Ai dirigenti italiani un consiglio lucido lo ha dato il ministro svedese del commercio, Thomas Oestros. Denunciando come assurdi i tetti contro il made in China, lo svedese ha aggiunto che il protezionismo serve solo a mantenere in vita i produttori inefficienti, e in questo modo danneggia anche i nostri stilisti italiani più competitivi: è in questi segmenti avanzati del sistema-moda, quelli che creano valore aggiunto e posti di lavoro qualificati, che l'Europa dovrebbe concentrare una strategia di sviluppo.
Ora l'Unione europea è costretta ad andare a Canossa. Bussa alle porte di Pechino una delegazione di Bruxelles che torna precipitosamente a rinegoziare coi cinesi – di certo divertiti – dei limiti più generosi rispetto a quelli che la stessa Europa aveva chiesto e ottenuto. A giugno si era celebrata come una vittoria l'accordo che fissava aumenti massimi delle importazioni made in China compresi fra l'8% e il 12,5% a seconda dei prodotti. Ora che l'Europa tocca con mano i danni del protezionismo all'italiana, comincia la marcia indietro.
La classifica della crescita mondiale pubblicata dall' Economist vede la Cina prima (+9% del Pil) e l'Italia ultima assoluta: sono le due facce della stessa medaglia. L'Italia è un piccolo paese industrializzato che assomiglia troppo alla Cina; per l'imprevidenza della sua classe imprenditoriale e politica ha creduto a lungo di poter competere con le stesse ricette dei paesi emergenti (bassi salari, moneta debole, economia sommersa, evasione fiscale e contributiva, scarso rispetto delle norme ambientali). Di fronte all'ascesa cinese siamo i più vulnerabili, ne subiamo un impatto più simile a quello che soffrono Turchia, Messico e Thailandia, e molto diverso dall'Europa moderna.
La nuova guerra del tessile non è più tra noi e la Cina. Stavolta si combatte tra europei. In Germania lo scontro è arrivato alla Corte costituzionale. L'intervento del supremo tribunale tedesco è stato invocato da una marca di abbigliamento, la Gelco, a cui sono stati sequestrati 38.000 pullover in arrivo da Shanghai. L'amministratore delegato della Gelco, Juergen Richter, si appella alla Corte sostenendo che il blocco delle importazioni dalla Cina infligge un danno ingiusto alla sua azienda, ai suoi dipendenti, e ai consumatori tedeschi che hanno il diritto di vestirsi al costo più basso. Ancora prima che la Corte tedesca si pronunci, un imponente schieramento di governi dell'Europa settentrionale è sceso in campo a difendere le stesse ragioni del signor Richter, dei consumatori europei…e della Cina. Germania, Olanda, Svezia, Danimarca e Finlandia sono in rivolta contro le restrizioni sul made in China – negoziate dal commissario europeo Peter Mandelson il 10 giugno a Pechino – che accusano di essere un grave cedimento alla lobby dell'industria tessile dell'Europa meridionale, soprattutto dell'Italia. In quei paesi del Nord la produzione tessile ha un peso modesto o è addirittura scomparsa. Invece vi hanno peso economico e influenza politica le associazioni dei consumatori, e i colossi della grande distribuzione che si fanno una concorrenza feroce sui ribassi dei prezzi. Inoltre Germania, Inghilterra, Olanda e Finlandia sono grossi investitori ed esportatori di tecnologie in Cina: vendono aerei, centrali elettriche e nucleari, treni ad alta velocità, elettronica avanzata e farmaceutica, servizi finanziari e assicurazioni. Per loro la Cina è un immenso e accogliente mercato, non un rivale. Oggi quei paesi, le loro associazioni di consumatori, la grande distribuzione, le loro multinazionali che esportano e producono in Cina, sono in guerra contro la lobby tessile italiana, accusata di avere strappato a Bruxelles dei limiti al made in China che fanno danni enormi.
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Ai dirigenti italiani un consiglio lucido lo ha dato il ministro svedese del commercio, Thomas Oestros. Denunciando come assurdi i tetti contro il made in China, lo svedese ha aggiunto che il protezionismo serve solo a mantenere in vita i produttori inefficienti, e in questo modo danneggia anche i nostri stilisti italiani più competitivi: è in questi segmenti avanzati del sistema-moda, quelli che creano valore aggiunto e posti di lavoro qualificati, che l'Europa dovrebbe concentrare una strategia di sviluppo.
Ora l'Unione europea è costretta ad andare a Canossa. Bussa alle porte di Pechino una delegazione di Bruxelles che torna precipitosamente a rinegoziare coi cinesi – di certo divertiti – dei limiti più generosi rispetto a quelli che la stessa Europa aveva chiesto e ottenuto. A giugno si era celebrata come una vittoria l'accordo che fissava aumenti massimi delle importazioni made in China compresi fra l'8% e il 12,5% a seconda dei prodotti. Ora che l'Europa tocca con mano i danni del protezionismo all'italiana, comincia la marcia indietro.
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