Da Corriere della Sera del 23/07/2006
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/07_Luglio/23/verderam...
Marini: no al Partito democratico nel Pse
«Per i cattolici sarebbe inaccettabile un'egemonia culturale e politica socialdemocratica». «Su Kabul meglio non ricorrere alla fiducia, l'Unione dialoghi ed eviti scommesse al buio»
di Francesco Verderami
ROMA — È già difficile aprire una breccia a mani nude in un muro, e l'impresa diventa proibitiva se i muri da abbattere sono due: quello della maggioranza, edificato sul pilastro dell'autosufficienza, e quello dell'opposizione costruito sul progetto di delegittimazione dell'avversario. Ma il presidente del Senato è convinto che i Muri della politica italiana possano essere abbattuti, e che l'impresa sia possibile solo se verranno smantellati insieme. Perciò alla vigilia di una settimana delicata a palazzo Madama, Franco Marini invita Prodi e Berlusconi a rimuovere almeno un mattone dalle barriere che hanno eretto: al premier chiede di non ricorrere alla fiducia per far passare il provvedimento sulle missioni militari, e al capo dell'opposizione propone di aprirsi al dialogo, «perché mi vado convincendo che l'apertura di un dialogo tra maggioranza e opposizione sia una risposta non solo giusta ma indispensabile».
Serve però al centrosinistra un atto di realismo, «non possiamo nascondere il dato emerso alle Politiche. Certo, l'Unione ha vinto, ma è inconfutabile che il Paese sia uscito diviso a metà dalle urne. E nell'esercizio del governo e dell'attività legislativa ne va tenuto conto. Perciò serve un rapporto continuo con l'opposizione sui grandi temi. Penso alle riforme istituzionali, dove c'è l'esigenza di trovare un punto di intesa tra il valore dell'unità del Paese e il federalismo, compreso il federalismo fiscale indicato dalla Lega. Bisogna rispondere poi alle richieste di chi, come il presidente di Confindustria Montezemolo, chiede una maggiore funzionalità degli apparati pubblici per l'innovazione del nostro sistema economico. E c'è da non perdere terreno rispetto all'Europa con il rilancio del sistema infrastrutturale ».
Marini sa qual è l'obiezione, e cioè che il Polo non avrebbe interesse a facilitare il percorso del centrosinistra in Parlamento. «L'interesse nazionale è una risposta a mio avviso convincente, perché è anche interesse dell'opposizione. Berlusconi l'ha capito. Ho ascoltato il discorso che ha tenuto alla Camera sul rifinanziamento delle missioni militari e la sua decisione conseguente nel voto. Qualcuno può pensare nella maggioranza che abbia fatto un regalo al centrosinistra. Invece con quella scelta lui ha dato un profilo autorevole del proprio ruolo».
A fronte di quel gesto, il presidente del Senato vorrebbe che l'Unione si comportasse di conseguenza. Invece si avverte in Marini «una preoccupazione », cioè che sul pilastro dell'autosufficienza la maggioranza aggiunga un altro mattone al muro che ha costruito: «Sento ripetere che malgrado un margine risicato, al Senato il centrosinistra tiene. È vero, la maggioranza finora ha retto. Però vorrei ricordare che nel dibattito sulle cellule staminali ha vinto per un voto. E ha vinto grazie al fatto che due senatori dell'opposizione, Alfredo Biondi e Antonio Del Pennino hanno sfilato la scheda. E se si fossero attenuti al vincolo di coalizione? Perciò, ritenere che al Senato il miracolo possa ripetersi all'infinito, significa accettare una scommessa al buio». È un messaggio rivolto a Prodi, perché non si arrocchi, perché non pensi di andare avanti a colpi di fiducia, siccome «a lungo termine il ricorso al voto di fiducia indebolisce la dialettica democratica ed esaspera la conflittualità parlamentare».
Ed è alla luce di queste considerazioni che il presidente del Senato attende «con grande partecipazione » le mosse di palazzo Chigi sul provvedimento per le missioni militari che arriva al Senato: «Sottoporrò il problema politico nelle sedi opportune, e inviterò a meditare. Io rispetto le prerogative costituzionali del governo, però faccio fatica a pensare a un voto di fiducia. Si soffocherebbe un dibattito che alla Camera — dopo un confronto ampio — si è concluso con un voto di grande unità nazionale. Anche al Senato ritengo ci siano le stesse possibilità».
Marini sa bene che a Montecitorio si è «manifestato il dissenso di alcuni deputati della maggioranza, segno di un problema politico». E sa che i margini a palazzo Madama sono molto più ristretti. Capisce insomma che si tratta di «una sfida impegnativa», vede «il rischio, anche alto» che i voti del Polo sul decreto possano essere sostitutivi e non solo aggiuntivi rispetto a quelli dell'Unione. Un simile evento avrebbe ripercussioni gravi sull'esecutivo. Ma sulla politica estera «è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità, a partire dai senatori di maggioranza che sono stati eletti sulla base di un programma di governo in cui non era prevista la fine dell'impegno in Afghanistan».
Il presidente del Senato confida poi in quella conferenza internazionale sulla crisi del Medio Oriente che mercoledì si terrà a Roma, «e che segna un grande successo del governo, di Romano Prodi e di Massimo D'Alema. Cosa può esserci di meglio che chiudere il giorno seguente con un dibattito aperto al Senato? Magari, sull'onda di quella conferenza, con uno sforzo di forze politiche e governo, si potrebbe riuscire a contenere o addirittura cancellare l'area del dissenso nella maggioranza, senza porre la fiducia. Sarebbe un risultato straordinario, per il Paese, per il governo che ne ricaverebbe autorevolezza internazionale, e anche per il Senato, perché aiuterebbe a rasserenare i rapporti tra maggioranza e opposizione ».
Marini, concentrato a ridurre la conflittualità al Senato, avrebbe preferito che non si aprisse «una nuova conflittualità sul Partito democratico », tra Ds e Margherita. Lui, che fino a qualche mese fa è stato uno dei maggiorenti dei Dl, è contrariato dallo scontro sulla futura collocazione europea del Pd. Evita di citare il leader della Quercia Fassino, che dalle colonne del Riformista ha chiesto a Rutelli di entrare nel Pse. E al pari evita riferimenti ai concetti espressi da Prodi sul Corriere: «Io dico che il dibattito si è aperto come se Ds e Margherita la scelta non l'avessero fatta. Invece hanno già scelto. Alle Europee prima e alle Politiche poi sono state fatte liste comuni. E se il processo si fermasse a metà del guado, si correrebbe il rischio di annegare». Marini sprona invece a portarlo a termine, «e se così sarà la nuova forza politica avrà il suo battesimo alle Europee del 2009».
Prima però andrà sciolto il «nodo irrisolto», quello della collocazione del futuro Partito democratico. E il presidente del Senato lo affronta partendo «da una riflessione del professor Pietro Scoppola sul tema del riformismo. Nel nostro Paese non esiste una cultura riformista egemone, c'è invece una pluralità di riformismi. E quello cattolico è vitale, perché vitale è l'insegnamento sociale della Chiesa. Perciò, se si vuole costruire un nuovo soggetto che sia accettato anche da larga parte di quell'elettorato, bisognerà tenerne conto. Altrimenti c'è una visione distorta e miope della realtà italiana. Questo è un punto fondamentale. I cattolici non possono accettare un'egemonia culturale prima che politica del filone socialdemocratico. Ciò non significa disconoscerne il valore, anzi, ma non ci si può chiedere di tagliare le nostre radici, magari perché ci viene detto che nel Pse verremmo accolti bene».
Marini non accetta l'approdo prospettato da Fassino. E siccome rimane da capire come mai la destinazione del viaggio non sia stata affrontata prima della partenza, avvia un'analisi autocritica che coinvolge i Dl, dunque anche se stesso, visto che fino a ieri ne è stato dirigente. «Come al solito i nodi non sciolti si ripresentano poi più aggrovigliati. E in questo senso, anche la Margherita ha delle responsabilità, perché non è stata chiara sul punto: all'indomani delle Europee, quando facemmo la lista dell'Ulivo, immediatamente ci dividemmo nei gruppi parlamentari di Strasburgo. Noi trovammo una casa nuova, i Ds andarono nel gruppo socialista. Allora avremmo dovuto puntare i piedi, e non lo facemmo. Oggi bisogna però sia chiaro che una collocazione europea del Partito democratico non può essere nel Pse. Perciò un punto di intesa non può che essere segnato da un approdo nuovo». Come dire che nemmeno l'idea evocata da Prodi lo convince.
«Bisogna avere la pazienza di ricercare soluzioni condivise », spiega la seconda carica dello Stato: «Come è accaduto pochi giorni fa, qui al Senato, con la risoluzione parlamentare dell'Unione sull'uso delle cellule staminali per la ricerca». Marini coglie lo spunto per esprimere la sua «sorpresa e amarezza, dopo gli attacchi ingenerosi rivolti alla senatrice Paola Binetti», e giunti da una parte del mondo cattolico: «È vero che la Chiesa ha una posizione di grande prudenza sul tema della ricerca scientifica. E sebbene sul piano personale condivida quella posizione sul rapporto scienza-vita, trovo che il compromesso raggiunto nell'Unione, proprio grazie al lavoro della Binetti e di altri, sia molto positivo. Si è fissato nella risoluzione il principio che la ricerca non può implicare la distruzione di embrioni. E si è dato al ministro Mussi il mandato di verificare a livello europeo la possibilità di ricerca su embrioni crio-conservati non impiantabili. Certo è un compromesso: ma il passo più lungo è stato fatto da chi a sinistra aveva posizioni più radicali».
Sempre sul filo, sempre al limite. Com'è difficile gestire la presidenza del Senato nella stagione del centrosinistra. Marini avrebbe molti modi per spiegarlo, certo «sexy» — come ha detto Prodi — non gli sarebbe mai venuto in mente. «No, sexy no. Devo dire che, stando seduto sullo scranno più alto di palazzo Madama, questo maggiore appeal della maggioranza proprio non lo vedo. Sarà una questione d'età...».
Serve però al centrosinistra un atto di realismo, «non possiamo nascondere il dato emerso alle Politiche. Certo, l'Unione ha vinto, ma è inconfutabile che il Paese sia uscito diviso a metà dalle urne. E nell'esercizio del governo e dell'attività legislativa ne va tenuto conto. Perciò serve un rapporto continuo con l'opposizione sui grandi temi. Penso alle riforme istituzionali, dove c'è l'esigenza di trovare un punto di intesa tra il valore dell'unità del Paese e il federalismo, compreso il federalismo fiscale indicato dalla Lega. Bisogna rispondere poi alle richieste di chi, come il presidente di Confindustria Montezemolo, chiede una maggiore funzionalità degli apparati pubblici per l'innovazione del nostro sistema economico. E c'è da non perdere terreno rispetto all'Europa con il rilancio del sistema infrastrutturale ».
Marini sa qual è l'obiezione, e cioè che il Polo non avrebbe interesse a facilitare il percorso del centrosinistra in Parlamento. «L'interesse nazionale è una risposta a mio avviso convincente, perché è anche interesse dell'opposizione. Berlusconi l'ha capito. Ho ascoltato il discorso che ha tenuto alla Camera sul rifinanziamento delle missioni militari e la sua decisione conseguente nel voto. Qualcuno può pensare nella maggioranza che abbia fatto un regalo al centrosinistra. Invece con quella scelta lui ha dato un profilo autorevole del proprio ruolo».
A fronte di quel gesto, il presidente del Senato vorrebbe che l'Unione si comportasse di conseguenza. Invece si avverte in Marini «una preoccupazione », cioè che sul pilastro dell'autosufficienza la maggioranza aggiunga un altro mattone al muro che ha costruito: «Sento ripetere che malgrado un margine risicato, al Senato il centrosinistra tiene. È vero, la maggioranza finora ha retto. Però vorrei ricordare che nel dibattito sulle cellule staminali ha vinto per un voto. E ha vinto grazie al fatto che due senatori dell'opposizione, Alfredo Biondi e Antonio Del Pennino hanno sfilato la scheda. E se si fossero attenuti al vincolo di coalizione? Perciò, ritenere che al Senato il miracolo possa ripetersi all'infinito, significa accettare una scommessa al buio». È un messaggio rivolto a Prodi, perché non si arrocchi, perché non pensi di andare avanti a colpi di fiducia, siccome «a lungo termine il ricorso al voto di fiducia indebolisce la dialettica democratica ed esaspera la conflittualità parlamentare».
Ed è alla luce di queste considerazioni che il presidente del Senato attende «con grande partecipazione » le mosse di palazzo Chigi sul provvedimento per le missioni militari che arriva al Senato: «Sottoporrò il problema politico nelle sedi opportune, e inviterò a meditare. Io rispetto le prerogative costituzionali del governo, però faccio fatica a pensare a un voto di fiducia. Si soffocherebbe un dibattito che alla Camera — dopo un confronto ampio — si è concluso con un voto di grande unità nazionale. Anche al Senato ritengo ci siano le stesse possibilità».
Marini sa bene che a Montecitorio si è «manifestato il dissenso di alcuni deputati della maggioranza, segno di un problema politico». E sa che i margini a palazzo Madama sono molto più ristretti. Capisce insomma che si tratta di «una sfida impegnativa», vede «il rischio, anche alto» che i voti del Polo sul decreto possano essere sostitutivi e non solo aggiuntivi rispetto a quelli dell'Unione. Un simile evento avrebbe ripercussioni gravi sull'esecutivo. Ma sulla politica estera «è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità, a partire dai senatori di maggioranza che sono stati eletti sulla base di un programma di governo in cui non era prevista la fine dell'impegno in Afghanistan».
Il presidente del Senato confida poi in quella conferenza internazionale sulla crisi del Medio Oriente che mercoledì si terrà a Roma, «e che segna un grande successo del governo, di Romano Prodi e di Massimo D'Alema. Cosa può esserci di meglio che chiudere il giorno seguente con un dibattito aperto al Senato? Magari, sull'onda di quella conferenza, con uno sforzo di forze politiche e governo, si potrebbe riuscire a contenere o addirittura cancellare l'area del dissenso nella maggioranza, senza porre la fiducia. Sarebbe un risultato straordinario, per il Paese, per il governo che ne ricaverebbe autorevolezza internazionale, e anche per il Senato, perché aiuterebbe a rasserenare i rapporti tra maggioranza e opposizione ».
Marini, concentrato a ridurre la conflittualità al Senato, avrebbe preferito che non si aprisse «una nuova conflittualità sul Partito democratico », tra Ds e Margherita. Lui, che fino a qualche mese fa è stato uno dei maggiorenti dei Dl, è contrariato dallo scontro sulla futura collocazione europea del Pd. Evita di citare il leader della Quercia Fassino, che dalle colonne del Riformista ha chiesto a Rutelli di entrare nel Pse. E al pari evita riferimenti ai concetti espressi da Prodi sul Corriere: «Io dico che il dibattito si è aperto come se Ds e Margherita la scelta non l'avessero fatta. Invece hanno già scelto. Alle Europee prima e alle Politiche poi sono state fatte liste comuni. E se il processo si fermasse a metà del guado, si correrebbe il rischio di annegare». Marini sprona invece a portarlo a termine, «e se così sarà la nuova forza politica avrà il suo battesimo alle Europee del 2009».
Prima però andrà sciolto il «nodo irrisolto», quello della collocazione del futuro Partito democratico. E il presidente del Senato lo affronta partendo «da una riflessione del professor Pietro Scoppola sul tema del riformismo. Nel nostro Paese non esiste una cultura riformista egemone, c'è invece una pluralità di riformismi. E quello cattolico è vitale, perché vitale è l'insegnamento sociale della Chiesa. Perciò, se si vuole costruire un nuovo soggetto che sia accettato anche da larga parte di quell'elettorato, bisognerà tenerne conto. Altrimenti c'è una visione distorta e miope della realtà italiana. Questo è un punto fondamentale. I cattolici non possono accettare un'egemonia culturale prima che politica del filone socialdemocratico. Ciò non significa disconoscerne il valore, anzi, ma non ci si può chiedere di tagliare le nostre radici, magari perché ci viene detto che nel Pse verremmo accolti bene».
Marini non accetta l'approdo prospettato da Fassino. E siccome rimane da capire come mai la destinazione del viaggio non sia stata affrontata prima della partenza, avvia un'analisi autocritica che coinvolge i Dl, dunque anche se stesso, visto che fino a ieri ne è stato dirigente. «Come al solito i nodi non sciolti si ripresentano poi più aggrovigliati. E in questo senso, anche la Margherita ha delle responsabilità, perché non è stata chiara sul punto: all'indomani delle Europee, quando facemmo la lista dell'Ulivo, immediatamente ci dividemmo nei gruppi parlamentari di Strasburgo. Noi trovammo una casa nuova, i Ds andarono nel gruppo socialista. Allora avremmo dovuto puntare i piedi, e non lo facemmo. Oggi bisogna però sia chiaro che una collocazione europea del Partito democratico non può essere nel Pse. Perciò un punto di intesa non può che essere segnato da un approdo nuovo». Come dire che nemmeno l'idea evocata da Prodi lo convince.
«Bisogna avere la pazienza di ricercare soluzioni condivise », spiega la seconda carica dello Stato: «Come è accaduto pochi giorni fa, qui al Senato, con la risoluzione parlamentare dell'Unione sull'uso delle cellule staminali per la ricerca». Marini coglie lo spunto per esprimere la sua «sorpresa e amarezza, dopo gli attacchi ingenerosi rivolti alla senatrice Paola Binetti», e giunti da una parte del mondo cattolico: «È vero che la Chiesa ha una posizione di grande prudenza sul tema della ricerca scientifica. E sebbene sul piano personale condivida quella posizione sul rapporto scienza-vita, trovo che il compromesso raggiunto nell'Unione, proprio grazie al lavoro della Binetti e di altri, sia molto positivo. Si è fissato nella risoluzione il principio che la ricerca non può implicare la distruzione di embrioni. E si è dato al ministro Mussi il mandato di verificare a livello europeo la possibilità di ricerca su embrioni crio-conservati non impiantabili. Certo è un compromesso: ma il passo più lungo è stato fatto da chi a sinistra aveva posizioni più radicali».
Sempre sul filo, sempre al limite. Com'è difficile gestire la presidenza del Senato nella stagione del centrosinistra. Marini avrebbe molti modi per spiegarlo, certo «sexy» — come ha detto Prodi — non gli sarebbe mai venuto in mente. «No, sexy no. Devo dire che, stando seduto sullo scranno più alto di palazzo Madama, questo maggiore appeal della maggioranza proprio non lo vedo. Sarà una questione d'età...».
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