Da Il Messaggero del 22/07/2004
La condanna del muro
di Marcella Emiliani
A STRAGRANDE maggioranza l'Assemblea generale dell'Onu ha condannato il muro anti-kamikaze che Israele sta costruendo in Cisgiordania e come la sentenza della Alta Corte dell'Aja ha chiesto la sua demolizione e l'indennizzo dei palestinesi la cui terra è stata confiscata per far posto alla gigantesca barriera. Il risultato, d'altronde, era scontato, anche se non con questi numeri: 150 paesi si sono espressi per la condanna, 6 si sono opposti (e tra questi spiccano gli Stati Uniti e il Canada), 10 si sono astenuti. Politicamente parlando, il dato più importante è che l'Unione Europea al completo ha sostenuto la posizione arabo-palestinese, non senza defatiganti mediazioni lessicali sulla formula con cui supportare la sentenza dell'Aja. Altrettanto nota e scontata la reazione di Israele che per bocca di un consigliere di Sharon, Ra'anan Gissin ha fatto sapere che la costruzione del muro procederà imperterrita perché «chiedere ad Israele di fermarla significa chiedergli di rinunciare al suo inalienabile diritto all'autodifesa».
E il punto cruciale sta proprio qui perché l' Assemblea generale dell'Onu, come la Corte dell'Aja, non hanno soppesato la minaccia terroristica che per Israele è la motivazione prima per la costruzione del muro medesimo, a riprova del fatto che le Nazioni Unite finiscono regolarmente in stallo ogni volta che si tratta di pronunciarsi in maniera chiara e univoca sul terrorismo. A mo’ di provocazione, o forse proprio per denunciare questa impasse, la Fondazione Wiesenthal ha proposto di equiparare il terrorismo ad un crimine contro l'umanità, ma l'umanità per bocca dei suoi rappresentanti all'Onu non riesce a trovare uno straccio di accordo su cosa si debba intendere per terrorismo proprio in un'epoca in cui è rimasto la principale sfida a livello pianeta.
Il pronunciamento dell'Assemblea generale, come la sentenza della Corte dell'Aja, sono perciò destinati a rimanere un beau geste simbolico che certamente aggrava l'isolamento internazionale di Israele, ma difficilmente potrà aiutare i palestinesi. Il loro osservatore presso le Nazioni Unite, Nasser al-Kidwa, ha definito il voto di ieri «uno sviluppo storico», paragonabile a suo dire alla risoluzione 181 del Consiglio di Sicurezza che nel 1947 sancì la spartizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno palestinese (con Gerusalemme internazionalizzata). Peccato che i palestinesi, e gli arabi tutti, quella occasione non la vollero cogliere e ricordarla oggi suona perfino di malaugurio visto che in casa palestinese le cose non vanno meglio oggi rispetto al 1947. Proprio nel momento in cui il mondo si schiera a favore della loro causa, in cui in Israele si sta per costruire un governo di unità nazionale con i laburisti di Peres da sempre favorevoli ad un dialogo con loro, e ancora nel momento in cui gli Stati Uniti potrebbero fare loro qualche concessione in più visto il pantano in cui si sono arenati in Iraq, i palestinesi si presentano all'appello dilaniati e screditati oltre ogni dire.
Alla guerra civile strisciante tra l'Autonomia di Arafat e Hamas-Jihad islamica, si aggiunge ora la spaccatura all'interno di al Fatah, il partito di Arafat nonché una deriva dispotica e corrotta dello stesso Arafat il cui potere nessuno riesce ad arginare. Men che meno il premier Abu Ala che ha dato le dimissioni, ostinatamente rifiutate dal gran vecchio, e che quindi rimane "ad interim" (di cosa?), mantenendo le dimissioni medesime. Parlare di riforme all'interno dell'Autonomia o di dialogo per riavviare la pace in queste condizioni sembra una chimera e non basta dire come fa Arafat che la colpa è tutta dell'occupazione di Israele. La contestazione che è dilagata in strada contro di lui sta a dimostrare proprio le sue responsabilità.
E il punto cruciale sta proprio qui perché l' Assemblea generale dell'Onu, come la Corte dell'Aja, non hanno soppesato la minaccia terroristica che per Israele è la motivazione prima per la costruzione del muro medesimo, a riprova del fatto che le Nazioni Unite finiscono regolarmente in stallo ogni volta che si tratta di pronunciarsi in maniera chiara e univoca sul terrorismo. A mo’ di provocazione, o forse proprio per denunciare questa impasse, la Fondazione Wiesenthal ha proposto di equiparare il terrorismo ad un crimine contro l'umanità, ma l'umanità per bocca dei suoi rappresentanti all'Onu non riesce a trovare uno straccio di accordo su cosa si debba intendere per terrorismo proprio in un'epoca in cui è rimasto la principale sfida a livello pianeta.
Il pronunciamento dell'Assemblea generale, come la sentenza della Corte dell'Aja, sono perciò destinati a rimanere un beau geste simbolico che certamente aggrava l'isolamento internazionale di Israele, ma difficilmente potrà aiutare i palestinesi. Il loro osservatore presso le Nazioni Unite, Nasser al-Kidwa, ha definito il voto di ieri «uno sviluppo storico», paragonabile a suo dire alla risoluzione 181 del Consiglio di Sicurezza che nel 1947 sancì la spartizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno palestinese (con Gerusalemme internazionalizzata). Peccato che i palestinesi, e gli arabi tutti, quella occasione non la vollero cogliere e ricordarla oggi suona perfino di malaugurio visto che in casa palestinese le cose non vanno meglio oggi rispetto al 1947. Proprio nel momento in cui il mondo si schiera a favore della loro causa, in cui in Israele si sta per costruire un governo di unità nazionale con i laburisti di Peres da sempre favorevoli ad un dialogo con loro, e ancora nel momento in cui gli Stati Uniti potrebbero fare loro qualche concessione in più visto il pantano in cui si sono arenati in Iraq, i palestinesi si presentano all'appello dilaniati e screditati oltre ogni dire.
Alla guerra civile strisciante tra l'Autonomia di Arafat e Hamas-Jihad islamica, si aggiunge ora la spaccatura all'interno di al Fatah, il partito di Arafat nonché una deriva dispotica e corrotta dello stesso Arafat il cui potere nessuno riesce ad arginare. Men che meno il premier Abu Ala che ha dato le dimissioni, ostinatamente rifiutate dal gran vecchio, e che quindi rimane "ad interim" (di cosa?), mantenendo le dimissioni medesime. Parlare di riforme all'interno dell'Autonomia o di dialogo per riavviare la pace in queste condizioni sembra una chimera e non basta dire come fa Arafat che la colpa è tutta dell'occupazione di Israele. La contestazione che è dilagata in strada contro di lui sta a dimostrare proprio le sue responsabilità.
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