Da Corriere della Sera del 16/03/2003

Un padre modello, anche troppo e tre «armi»: Dio, Texas e famiglia

Le tre armi dell' uomo di Washington «Dio, Texas e famiglia contro il raìs» Nei sondaggi gli americani dicono sì alla guerra ma diffidano del leader George rischia la rielezione: e riaffiora l' incubo di tornare la «pecora nera»

di Gianni Riotta

Tanti anni fa, quando ancora non era il «leader del mondo libero», non volava alle Azzorre per il summit di guerra con il conservatore Aznar e il socialista Blair, George Walker Bush tornò una volta a casa, ubriaco. Era una notte del Texas, silenziosa sotto le stelle, George W. Bush fiero della sua Triumph spider, che auto migliore per un playboy in cerca di guai? Accanto, sul sedile di cuoio, Marvin, fratello ancora adolescente. Le stelle non bastano a illuminare il secchio della spazzatura dei vicini e la densa birra texana, mischiata al dolciastro whiskey bourbon Jack Daniel' s, ottunde. Il futuro presidente centra il bidone in pieno, frena, fa scendere nel chiasso Marvin. Brutta nottata. Dal portico di casa si fa avanti un altro futuro presidente, George Herbert Walker Bush, padre di George W. E' il 1973, la guerra del Vietnam e la band dei Creedence Clearwater Revival in hit parade. Il giovane Bush non perde tempo. Sbatte la portiera, affronta il padre: «Mi stai cercando? Vuoi fare a botte, qui, subito?». Bush senior è un ex pilota della Marina, asso del baseball. Con un cazzotto stenderebbe il figlio, malfermo sulle gambe. Dal ritratto nel salotto, il nonno, l' augusto senatore Prescott Bush, guarda gli eredi squadrarsi, come bulli di periferia. Bush padre non alza la guardia, non alza neppure la voce. Dice piano «mi hai deluso» e torna indietro. Milioni di uomini e donne si chiedono oggi «come mai?». Come mai George W. Bush, «presidente per caso» lo chiamano i suoi avversari, può arrivare alle isole Azzorre battute dal vento, a stilare con gli ultimi due alleati fedeli, la strana coppia Spagna-Gran Bretagna, il calendario per l' assalto a Saddam Hussein? Perché ha diviso l' Onu, ha trascurato i danni inferti alla Nato, ha tenuto testa alla rivolta tardogollista di Jacques Chirac? Perché va alla guerra, ora, da solo, senza esitazioni? Chi cerca la risposta su tanta stampa europea viaggia a ritroso sulla macchina del tempo e ritorna agli anni cruciali di Ronald Reagan, 1980-1988. Allora le analisi degli osservatori sofisticati, d' Italia, Francia, Inghilterra e Germania coincidevano: Reagan? Un attore fallito di serie B, un cow boy retorico, l' ultima «americanata» del secolo, Alberto Sordi alla Casa Bianca. Poi Reagan, e la sua formidabile macchina politica, cambiarono l' America e il mondo, il giudizio mutò e solo i ritagli ingialliti testimoniano della superficialità di tanti queruli osservatori. Chi si accontenta delle caricature, può accomodarsi. George W. Bush era un tale goliardo all' università di Yale che l' amica Beebe Dieter lo ricorda così: «Avete presente John Belushi nel film "Animal House", sesso, sbornie, bocciature? Bene, quando l' ho visto, ho pensato, riecco George W.». Non riuscì mai ad eccellere negli sport come il padre, asso del baseball e centravanti di calcio. Fu invece cheerleader al liceo per ricchi e famosi di Andover, sì avete capito bene, l' attuale presidente fu un ragazzo pon pon, si dimenava ai bordi del campo per incitare il tifo. All' università fu a capo della lega di «stickball», una parodia del baseball per rimorchiare ragazze e ubriacarsi. Paradossalmente sui siti no global il presidente Bush viene oggi accusato come «cocainomane». Siti antiproibizionisti, che si convertono alla severità di San Patrignano per denunciare «il presidente tossico». Lui non ha mai negato l' uso di cocaina: «Le campagne politiche sono piene di pettegolezzi. Ne smentisci uno, ne spunta un altro. Io ho fatto errori nella mia vita e ho imparato dai miei errori». Stessa formula per rintuzzare le accuse di adulterio, è sposato dal 1977 con Laura Welch. Chi vuole invece ragionare sull' operazione politica che ruota attorno a George W. Bush, petroliere fallito, candidato trombato alla Camera, due volte governatore del Texas e presidente degli Stati Uniti feriti l' 11 settembre, deve recitare questo mantra: Dio, Texas, Famiglia. E' il Dna presidenziale, è, per chi non vuol ripetere, da amico o da avversario, l' errore fatto con Reagan, la chiave per rispondere alla domanda: perché Bush va in guerra da solo? Per tutta la vita George Walker Bush non è riuscito a ripetere i successi paterni. Bush padre era un campione sportivo, il figlio un ragazzo pon pon. Bush eccelleva negli studi, W. non è mai andato oltre la sufficienza. Bush padre fu il più giovane pilota americano di Marina nella Seconda Guerra Mondiale, abbattuto dai giapponesi sui cieli di Chichi Jima, salvato da un sommergibile, in acque infestate da squali. W. si arruolò nella Guardia Nazionale del Texas per non andare in Vietnam, superò gli esami con il voto più basso ed è fortissimo il sospetto che solo le raccomandazioni l' abbiano salvato. Come businessman ha un bilancio maldestro. Mentre il padre è alla Casa Bianca, vice di Reagan, George W. Bush vivacchia con la sua compagnia petrolifera, finché non la fonde con Harken Energy nel 1986, approfittando di facilitazioni fiscali che gli mettono in tasca 500.000 dollari di azioni. Harken era fino ad allora un marchio texano minore, la «connection» con il figlio del vicepresidente, la fa sbarcare all' estero, trivellando pozzi petroliferi in Bahrain. Non dura, ma poco prima del crollo della Harken, W. si libera di tutte le azioni. «Insider trading»?, truffa per informazioni di borsa? Non si trovano prove. Qualche ombra anche sull' operazione Texas Rangers, la squadra da baseball che Bush rileva nel 1989, per crearsi la notorietà che lo lancerà poi alla candidatura di governatore repubblicano nel 1994. Il pacchetto dell' 84% della squadra costa 86 milioni di dollari. Bush ne mette in proprio solo 600.000. Per costruire il nuovo stadio, ottiene una tassa speciale e un generoso investimento pubblico: fisco e spesa, l' opposto della sua filosofia di conservatore. Bush riceve un salario come manager, il suo nome aiuta nelle relazioni sociali e quando i Rangers cambiano mano, nel 1998, il cartellino del prezzo registra 250 milioni di dollari. I 600.000 biglietti verdi investiti da W. fruttano 14 milioni e novecentomila dollari. Colpo grosso. David Frum, ex consulente di Bush, e Karl Rove, sua eminenza grigia, concordano: «Dal Texas Bush ha tratto la capacità populista di essere sempre a proprio agio, con la regina Elisabetta e con il meccanico a bordo campo del baseball. Sa utilizzare il sangue blu aristocratico della famiglia, nel business e in politica». Quando arriva a cena la regina Elisabetta II, Barbara Bush sistema il figlio il più lontano possibile, temendo gaffes. W. abborda lo stesso la regina: «Piacere sono la pecora nera della famiglia. Qual è la pecora nera della sua?». «Non la riguarda», replica algida Elisabetta. Ai cronisti che gli chiedono cosa ha regalato a sua moglie per le nozze d' argento, offre una maliziosa strizzata d' occhio, da vecchio seduttore. Humor salace, conto in banca, legami di clan, politica e affari. Bush potrebbe vivacchiare, come tanti familiari dei potenti della terra. Ma c' è lo spettro di quella notte in Texas, quando lui violò ogni regola paterna, la morigeratezza, la riservatezza, la responsabilità e l' ambizione. «Vuoi fare a botte, da uomo a uomo?», «Mi hai deluso». C' è un ultimo party, intorno al 1986, Bush ha 40 anni, il risveglio è del dopo sbronza da alcolista, cerchio alla testa, bocca impastata, vomito. «Da oggi smetto di bere». C' è l' amico Don Evans, petroliere in difficoltà per la crisi del greggio in Texas e futuro ministro del commercio, che sceglie un rimedio inconsueto nei consigli d' amministrazione di casa nostra per reagire al crollo dei profitti: la Bibbia. Bush comincia a leggere l' Antico Testamento con Evans. E' stato educato nella chiesa Presbiteriana del padre, poi tra gli episcopali di mamma Barbara. Confessioni protestanti così distaccate da meritarsi il nomignolo di «Chiese Findus». Oggi i presbiteriani sono la chiesa che più perde fedeli, troppo poco coinvolgenti i loro riti. Reclutano convertiti gli evangelici, i metodisti, e Laura Welch Bush converte il dissoluto marito alle loro dottrine carismatiche. Quando arriva alla Casa Bianca, il nuovo consigliere David Frum, sente come prima frase: «Mi sei tanto mancato ieri alla lettura della Bibbia». Monica Lewinsky, il tanga, il sigaro di Bill Clinton, sono esorcizzati. Questa religione è difficile da comprendere per noi europei, non è la fede laica di un Adenauer, un Moro, un Tony Blair. E' la certezza pentecostale che Dio fa la differenza nella vita quotidiana, che il suo Verbo è letterale. Chiedono a Bush: «Qual è il filosofo che l' ha più influenzata?». «Gesù - risponde - perché ha toccato il mio cuore». Niente più bourbon, spider, festini. Levarsi alle 5 e 45 per leggere «Il massimo per l' Altissimo», libro di meditazioni evangeliche scritto da Oswald Chambers, battista scozzese morto nel 1917. Chambers insegna a vivere secondo il profeta Isaia, affidandosi a Dio nelle difficoltà: «Quando non avete potere, quando siete nell' oscurità, uscite da voi stessi e consegnate la vostra mente a Dio». Bush recita «Se si può essere in pace, io sono in pace» davanti alla guerra. Non medita Clausewitz, ma San Paolo, Epistola ai Romani, «Non fatevi travolgere dal male, travolgete il male con il bene». Bush lascia cadere le citazioni di «Gesù», per non offendere gli elettori ebrei, ma parla di «Dio»: «Senza di lui vivrei in un lercio bar, non alla Casa Bianca». Il 90% dei suoi compatrioti crede in Dio, l' 80% crede nei miracoli, il 40% dice di averne ricevuto uno in prima persona. Va a messa il 53% degli americani, più del doppio della media europea. Il discorso sulla Stato dell' Unione è il vero ultimatum a Saddam Hussein. Bush parla del «Potere che crea meraviglie». I 40 milioni di fedeli delle chiese evangeliche riconoscono, nascosto nel testo, l' inno «C' è potere nel sangue»: «...c' è potere, potere, potere che crea meraviglie nel sangue prezioso dell' Agnello». Un inno carismatico, che mai Bush padre avrà cantato nei severi templi Presbiteriani, ma che governa la robusta e sanguigna confessione evangelica. «La Scrittura dice che Dio sceglie i leader» predica il pastore Steve Clark «adesso ha scelto Bush». All' università di Yale, Bush litigò invece con il reverendo William Coffin, pastore pacifista e di sinistra, dopo che il padre fu sconfitto alle elezioni per il Senato: «Tuo padre è George Bush? Bene, ha perso contro un uomo migliore» disse Coffin. Il duello mancato della notte texana 1973, non è un dramma freudiano, Edipo alla Casa Bianca. E' la somma delle motivazioni che animano il 43esimo presidente americano. L' ostinazione texana, il pragmatismo che porta anche a regolare i conti con qualche scorrettezza, la fede alla dinastia, ma a proprio modo, da «pecora nera». Il risentimento verso gli intellettuali, Yale, il reverendo Coffin, che si arrogano il diritto di scegliere «gli uomini migliori». La confessione di debolezza, «senza Dio sarei in un bar», la delega al divino del fedele carismatico «se si può essere in pace, sono in pace». Chiesero a Bill Clinton quale fosse il suo libro prediletto e rispose «I ricordi» di Marco Aurelio. Alla stessa domanda, Bush rispose «The raven», una popolare biografia di Sam Houston, scritta da Marquis James nel 1929. Houston, padre del Texas, era da giovane un ubriacone, visse tra gli indiani Cherokee e si ridusse a vagabondo. Il leggendario intellettuale francese Alexis de Tocqueville ne restò disgustato: «Ecco le brutte conseguenze della sovranità popolare» commentò. Poi Houston emigrò in Texas, ne organizzò l' indipendenza e battè il celebrato generale messicano Santa Anna alla battaglia di San Jacinto, vendicando la presa di Fort Alamo. Alla fine predicò ai texani di restare fedeli al Nord e di non partecipare alla sanguinosa guerra civile. Non lo ascoltarono. Quando un politico cita un libro, fornisce sempre una traccia non di quel che è davvero, ma di quel che vorrebbe essere. Clinton, abile e sensuale, ambiva all' imperatore saggio e stoico, Marco Aurelio. Bush, texano di prima generazione, sogna, come Houston, di rifondare la nazione. Da bambino andava a scuola alla San Jacinto. Houston, città omonima del patriota ex beone modello di Bush, è lontana da Parigi, lontanissima da Mosca. Tocqueville, che pure capì tutto dell' America, restò disgustato da Sam Houston. L' estetica, la storia, lo stile, le tradizioni non ci aiutano a capire la filosofia di George W. Bush, ce ne allontanano. L' uomo che in queste ore è seduto a ragionare di guerra e pace con Blair e Aznar alla Azzorre crede in Dio, Texas, Famiglia. Il suo destino politico è segnato. Il 65% degli americani, senza entusiasmo, dice sì all' attacco (fonte New York Times). Ma la popolarità del loro leader, scelto o meno che sia da Dio, scende. Solo il 36% dei cittadini è soddisfatto della direzione in cui va il Paese, il 61 si dichiara insoddisfatto (fonte Gallup). Bush gode solo del gradimento del 54% degli americani, quanto basta per renderlo vulnerabile alle presidenziali del 2004. L' effetto 11 settembre è svanito, nell' agosto del 2001 Bush era al 53%. Solo la metà degli elettori è persuasa della sua politica estera e, se guardate all' economia, il presidente va alle corde: il 60% boccia il suo piano, che riduce le tasse e allarga il deficit. Le riforme che aveva promesso, dalla scuola alla mutua Medicare, sono dimenticate. Il consenso internazionale coltivato da suo padre è infranto. Convertito, sobrio, forte di una ferrea disciplina interna, Bush vola alle Azzorre verso un appuntamento non meno simbolico di quella notte texana: «Vuoi batterti da uomo a uomo?». La guerra è la sua scommessa finale, se vinta farà di lui un leader, la nemesi dell' ubriacone fallito, il nuovo Sam Houston. Se perduta sarà sconfitta bruciante, la conferma beffarda del destino, con Bush padre a infliggere in eterno il marchio «Mi hai deluso». E stavolta il sangue versato non sarà quello dell' Agnello mistico, ma quello dei civili iracheni e di tanti figli di mamma americani.

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