Da La Stampa del 18/03/2003
Un fallimento che ha molti responsabili
di Aldo Rizzo
LA guerra è sempre un fallimento della politica e della diplomazia, nonostante i molti esercizi di Realpolitik che si possono fare sulla base del pensiero classico, alla Clausewitz. La guerra imminente all’Iraq non sfugge alla regola. Tutti i tentativi di evitarla non hanno raggiunto lo scopo, e ora solo Saddam potrebbe riuscirci cedendo, all’ultimissima ora, all’ultimatum di Bush.
Ma come crederci? La politica e la diplomazia sono fallite anzitutto per colpa del dittatore iracheno, della sua spavalda incoscienza, della sua presunzione di sfidare la superpotenza mondiale con dinieghi, mezze ammissioni tardive, raggiri vari. E questo dodici anni dopo l’invasione del Kuwait, che era stata annullata risparmiando il suo potere, evidentemente sbagliando.
Poi per colpa della stessa America, dell’Amministrazione Bush (del Bush figlio del padre che aveva risparmiato Saddam); di un’America che ha reagito al trauma certo spaventoso dell’11 settembre credendo di poter decidere sui destini del mondo cercando consensi più che consigli, e infine votandosi a una conflittualità indefinita, sorvolando su nessi essenziali, che andavano dimostrati (l’Iraq, Al Qaeda).
E infine anche per colpa di quei paesi europei, come la Francia e la Germania, la Francia soprattutto, che invece di condizionare la superpotenza offesa con un contributo di saggezza, l’hanno ancor più irritata inscenando una gara di potere interna all’Occidente. Ora che la guerra appare del tutto inevitabile, col suo seguito altrettanto fatale di distruzioni e di morti, la lezione del vecchio Clausewitz (la guerra come prosecuzione della politica) può tornare utile, purché sia rettamente intesa.
Cioè, a questo punto, il problema è «governare» la guerra, calcolarne e controllarne le conseguenze. Nell’Iraq del dopo-Saddam, nell’America «imperiale», nell’Europa divisa, che solo unendosi, nonostante tutto, potrà davvero evitare altre tragedie della storia e anche badare non velleitariamente ai propri fondamentali interessi.
Ma come crederci? La politica e la diplomazia sono fallite anzitutto per colpa del dittatore iracheno, della sua spavalda incoscienza, della sua presunzione di sfidare la superpotenza mondiale con dinieghi, mezze ammissioni tardive, raggiri vari. E questo dodici anni dopo l’invasione del Kuwait, che era stata annullata risparmiando il suo potere, evidentemente sbagliando.
Poi per colpa della stessa America, dell’Amministrazione Bush (del Bush figlio del padre che aveva risparmiato Saddam); di un’America che ha reagito al trauma certo spaventoso dell’11 settembre credendo di poter decidere sui destini del mondo cercando consensi più che consigli, e infine votandosi a una conflittualità indefinita, sorvolando su nessi essenziali, che andavano dimostrati (l’Iraq, Al Qaeda).
E infine anche per colpa di quei paesi europei, come la Francia e la Germania, la Francia soprattutto, che invece di condizionare la superpotenza offesa con un contributo di saggezza, l’hanno ancor più irritata inscenando una gara di potere interna all’Occidente. Ora che la guerra appare del tutto inevitabile, col suo seguito altrettanto fatale di distruzioni e di morti, la lezione del vecchio Clausewitz (la guerra come prosecuzione della politica) può tornare utile, purché sia rettamente intesa.
Cioè, a questo punto, il problema è «governare» la guerra, calcolarne e controllarne le conseguenze. Nell’Iraq del dopo-Saddam, nell’America «imperiale», nell’Europa divisa, che solo unendosi, nonostante tutto, potrà davvero evitare altre tragedie della storia e anche badare non velleitariamente ai propri fondamentali interessi.
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