Da Corriere della Sera del 18/03/2003

La prima vittima

di Sergio Romano

La diplomazia si è arresa e il Consiglio di sicurezza è ormai «chiuso per guerra». Nel pomeriggio di ieri abbiamo visto in diretta sugli schermi televisivi l’epilogo di una fase diplomatica che ricorda per molti aspetti quella che precedette lo scoppio delle ostilità nell’agosto del 1914. Le circostanze sono diverse, ma i sentimenti all’origine del conflitto sono in buona parte gli stessi: paura del nemico, ostinazione, orgoglio, risentimento, arroganza. Con una importante differenza, tuttavia. Non esisteva, nel 1914, un’organizzazione internazionale autorizzata a risolvere le controversie e a verificare la necessità di una guerra. Oggi quell’organizzazione esiste e appare, a prima vista, pubblicamente sconfessata dalla decisione unilaterale di una grande potenza. Ho detto «a prima vista» perché le sorti dell’Onu dipendono in realtà dagli esiti della guerra. Se il conflitto sarà breve e avrà conseguenze positive (la fine di una dittatura, un Iraq bene amministrato, l’inizio di un processo democratico destinato a coinvolgere l’intera regione), l’Onu apparirà a posteriori come un’organizzazione inetta, incapace di far fronte alle sue responsabilità internazionali. Ma una guerra lunga, sanguinosa e carica di conseguenze imprevedibili avrà l’effetto opposto. L’Onu potrà vantarsi di essere stata l’unica istituzione dove le crisi possano essere affrontate e risolte con gli strumenti del negoziato, delle pressioni politiche, dei controlli internazionali. E comincerà forse una nuova fase nel corso della quale l’organizzazione sarà valorizzata, rinnovata e rafforzata.
Torniamo al presente. Per coloro che avrebbero preferito concedere agli ispettori un tempo supplementare, la partita è chiusa. Potranno continuare a deplorare la politica americana, declamare slogan e minacciare scioperi. Ne hanno il diritto, ma non riusciranno a modificare il corso delle cose. Il governo, i partiti e la classe dirigente non possono compiacersi delle dichiarazioni di principio e hanno l’obbligo di adattarsi alla realtà. Ciò che è stato detto e fatto sinora verrà giudicato dagli storici e apparirà più o meno saggio, a seconda delle conseguenze della guerra. Ma ciò che il governo italiano farà d’ora in poi può servire a salvaguardare alcuni fondamentali interessi nazionali. L’agenda è cambiata. I problemi all’ordine del giorno, per un Paese tanto vicino all’area della crisi, sono gli equilibri del Vicino Oriente, la ricostruzione dell’Iraq e, oggi più che mai, la questione palestinese.
L’Italia non parteciperà alle operazioni. Non glielo permetterebbero né l’interpretazione della sua Carta costituzionale, né i suoi scarsi mezzi militari. Se verrà chiamata a dare qualche sostegno logistico e se il Parlamento approverà le decisioni del governo, avrà interesse a non rifiutare. Sarà in buona compagnia: la Russia ha già voltato pagina, la Germania concederà l’uso delle basi e anche la Francia farà probabilmente una graduale inversione di rotta. Nessuno vorrà aprire un contenzioso con gli Stati Uniti nel peggiore dei momenti possibili.
Ma l’azione politica dell’Italia deve tenere d’occhio soprattutto il futuro. Il dopoguerra non è nelle nostre mani e potrebbe essere molto più tormentato di quanto gli americani non prevedano. Ma il governo deve prepararsi a essere, qualsiasi cosa accada, là dove si parlerà di infrastrutture, petrolio, grandi commesse, equilibri regionali e soprattutto della creazione di uno Stato palestinese.

Non siamo una grande potenza, ma abbiamo buoni rapporti con il mondo arabo-musulmano e possiamo rendere servizi, anche umanitari, che saranno nei prossimi mesi indispensabili. Il maggiore sforzo politico, tuttavia, è quello che l’Italia dovrà fare nel secondo semestre di quest’anno, quando avrà la presidenza dell’Unione europea. Occorrerà partire da una constatazione. L’Europa ha dato di sé, in questa vicenda, una pessima immagine. Pur avendo interessi comuni e, alle loro spalle, una opinione pubblica straordinariamente omogenea, i membri dell’Ue, con le loro politiche diverse, si sono condannati all’impotenza. Il disagio di Blair, il dinamismo di Chirac, il pacifismo di Schröde r, l’imbarazzo di Berlusconi e, su un altro piano, le esortazioni del Papa sono stati accolti a Washington con sufficienza e fastidio. Non credo che esista, nella storia europea degli ultimi cinquant’anni, una pagina altrettanto umiliante. Avremmo ottenuto questo risultato se il sentimento dell’unità avesse prevalso sui piccoli egoismi nazionali? Il Paese che presiederà l’Unione nel prossimo semestre dovrà fare del suo meglio per riparare i danni e promuovere la convergenza dei partner verso politiche comu ni. Non basterà ricostruire l’Iraq. Occorrerà ricostruire l’Europa. E iscrivere sul suo stemma, se mai ne avrà uno, il motto: «Mai più come in Iraq».

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