Da La Repubblica del 18/03/2003

L'invasione dell'Iraq è di fatto iniziata ieri sera. Un discorso preparato durante il viaggio nelle Azzorre

La chiamata alle armi dodici anni dopo

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - "Nel nome del potere sovrano di questa nazione e del giuramento solenne che ho fatto di difenderla, Saddam Hussein ha 48 ore per andarsene con i suoi figli". La nebbia di bugie e di speranze si dissolve alle otto di sera alla Casa Bianca, da dove finalmente George Bush dice al mondo quella verità che tutti aspettavamo, che soltanto l'eliminazione del dittatore risparmiato dal padre nel '91 può soddisfare il figlio e il suo bisogno di vendicare l'11 settembre 12 anni dopo. Saddam ha dunque fino alle 20 di domani ora di Washington, le due del mattino di giovedì ora italiana, per fuggire da Bagdad con i suoi figli. Poi "nel momento che noi sceglieremo" le prime delle tremila bombe cominceranno a cadere.

L'invasione dell'Iraq è, di fatto lanciata e resta da vedere se essa sarà un'invasione "pacifica" come Bush ha chiesto o se sarà un'invasione aperta dalla violenza, ma non ci sono dubbi sul fatto che entro pochi giorni, le armate anglo americane, le prime forze di potenze occidentali dunque cristiane chiamate a "liberare" o occupare una grande nazione araba e musulmana, saranno in azione. Dipenderà dalla improbabile fuga della famiglia del rais e dalla resa che Bush ha chiesto ai comandanti, ai soldati, alle truppe irakene, chiedendo a loro di "permettere l'ingresso pacifico dei vostri liberatori", di "non usare armi chmiche" di "non nascondersi dietro gli ordini", dunque di ammutinarsi. "Non distruggete i pozzi, che sono la vostra ricchezza, perché il giorno della liberazione è vicino".

Poco importa che Kofi Annan abbia detto quello che tutti i governi, da Blair a Berlusconi, hanno ripetuto negli ultimi mesi, che un'invasione senza il sigillo della comunità internazionale sarebbe stata, come disse il nostro Presidente del Consiglio, "nefasta", dunque empia. Bush ha citato quasi distrattamente, nei suoi 14 minuti di discorso al mondo, i passi diplomatici, i 12 anni di risoluzioni ignorate, anche il tradimento di quella nazione, la Francia, che "non ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità delle sue parole e agire per disarmare Saddam", più che un'accusa, un insulto. Le fondamente dell'invasione, non sono al Palazzo di Vetro, per questo Presidente, ma nella "sovranità" degli Usa e nel suo diritto dovere di "rimuovere il pericolo, prima che il giorno dell'orrore arrivi", appunto la guerra preventiva.

Washington avrebbe "preferito" la copertura delle Nazioni Unite, ma alle proprie condizioni, e Bush sembra soddisfatto di avere al fianco coloro "che ci stanno", senza preoccuparsi di un Consiglio di Sicurezza che ha "mancato alle sue responsabilità", perché questa invasione e occupazione dell'Iraq "non è questione di diritto, ma di volontà" e mai affermazione di unilateralismo imperiale fu più chiara e dura.

Altri potranno dibattere la legalità di questa invasione, pacifica o guerreggiata che sia, da giovedì prossimo, ma non Bush, che vede nel "giuramento sulla bibbia" la fonte della sua autorità, come un imperatore di sacri romani imperi. E questa decisione non è stata presa ieri, o neppure ieri l'altro, ma fu presa la mattina dell'11 settembre, quando Bush imboccò la strada verso l'ultimatum di ieri sera Nelle 12 ore di volo andata e ritorno dal lugubre incontro nelle Azzorre con Blair e Aznar, Bush si era già portato sull'Air Force One il suo speechwriter, per mettere a punto il discorso che ha letto ieri sera. Mentre in pubblico parlava ancora di "giornata decisiva" all'Onu, già lavorava in privato all' ultimatum che era stato previsto per martedì sera ed è stato anticipato a ieri lunedì E si capisce adesso meglio la spasmodica loquacità di Blair davanti alle telecamere e l'immusonita ruvidezza di un Bush che aveva l'aria di uno che sta perdendo tempo.

Infatti, la "storica giornata" della diplomazia è durata la miseria di 12 minuti, il tempo tra l'apertura degli uffici al Palazzo di Vetro alle 9.00 e le 9.12 quando gli ausiliari di Washington, gli Inglesi, sono andati davanti ai microfoni ad annunciare, con il perfetto accento da "public school" britannica di Sir Jeremy Greenstock, l'ambasciatore, che la risoluzione di compromesso proposta da Londra con la scadenza ieri era stata ritirata, per colpa di "uno stato membro", del cattivo di questo film tutto americano, la Francia. Usa, Regno Unito e Spagna, sarebbero andate avanti sfidando "la dubbia legalità" dell'attacco, come più tardi dirà un Kofi Annan ancora più immalinconito e depresso del suo solito. E alle 9 e 14, ora di New York e Washington, finita la passerella della Triplice Alleanza della Guerra in quel corridoio del Palazzo di Vetro, dove un drappo ha coperto da qualche settimana la riproduzione del "Guernica" di Picasso, giudicato dagli americani ormai politicamente scorretto, la Casa Bianca faceva sapere che l' ultimatum di Bush con il diktat a Saddam era stato anticipato a lunedì e che gli ispettori in Iraq avevano avuto l'ordine di andarsene.

La cappa di ineluttabilità, il senso di marcia inesorabile verso la "terra incognita" dell'occupazone di un Paese musulmano da parte di una potenza cristiana, si leggeva benissimo nel volto stanco di Colin Powell, spedito davanti alle telecamere per una sorta di atto di contrizione pubblico. Era un segretario di Stato patetico nella sua autodifesa dalle accuse velenose fatte circolare dai falchi vittorioso. "Hanno detto che non viaggio abbastanza - si giustificava il generale, il solo nella squadra di Bush che abbia visto e fatto la guerra davvero - ma è una leggenda, sono stato anche a Davos in Svizzera, ho incontrato i ministri degli esteri francese, russo, tedesco, cinese, prima di venire qui ho telefonato di nuovo a Parigi, a Berlino, a Beijing, al segretario generale Annan, ad Atene, a Madrid e oggi pomeriggio mi aspettano altre telefonate, vedete?". Un'esibizione che potrebbe essere il suo testamento politico.

Resta, nel film della immagini di questo giorno triste, la sequenza forse più struggente. George Bush che da solo, in completo blu con cravatta, gioca a pallone nel giardino delle Rose con il suo cocker spaniel Spotty, calciando di malavoglia la palla, laciandogli uno stecco, sotto gli sguardi del servizio segreto appostato dietro le colonne. Immagine casuale ed esemplare della solitudine dell'America alle soglie della guerra, e di un uomo che si fida ormai soltanto del suo cane. E che la prossima settimana dovrà presentare al Parlamento il primo conto della guerra: almeno 70 miliardi di dollari di finanziamento straordinario.

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