Da La Repubblica del 16/03/2003
Originale su http://www.repubblica.it/online/esteri/iraqtrentacinque/scalfari/scalf...

Perché l'America non ha alleati

di Eugenio Scalfari

COME ha raccontato con rara efficacia Vittorio Zucconi, la mossa palestinese di Bush ha preso corpo nella giornata di venerdì 14 marzo di fronte ai microfoni della Casa Bianca. Un presidente di cui era evidente l'aria tra imbambolata e stranita, che aveva perso lo smalto del guerriero con in mano le saette della guerra, affiancato da un taciturno e ingrugnato Colin Powell, rilanciava inopinatamente il tema della pace in Medio Oriente alla vigilia della guerra irachena, alla disperata ricerca di rammendare il tessuto dell'alleanza coi paesi arabi, sempre più sospettosi e allarmati dalle prospettive del dopo-Saddam.

Nei quattordici giorni tra l'11 e il 25 settembre del 2001, che servirono a Colin Powell a mettere in piedi la grande alleanza mondiale contro il terrorismo, Bush assunse l'impegno solenne di affrontare contemporaneamente tre grandi temi che, uniti insieme, avrebbero dato forza all'operazione politica prima ancora che militare battezzata United Enduring Freedom: l'annientamento di Al Qaeda e del regime talebano, la nascita dello Stato palestinese, la lotta per almeno tre generazioni contro la povertà e la malattia.
Era, ripetiamolo, la metà di quel tragico settembre di due anni fa.

Sembrava essersi alzato il sipario su un nuovo mondo che, colpito da una prova terribile dalla quale era tuttavia uscito più orgoglioso, più lungimirante, più solidale, prendeva in mano il suo destino risollevando la bandiera insanguinata dei grandi valori dell'Occidente e sventolandola come punto di riferimento dei diseredati, dei poveri, degli oppressi di tutto il pianeta.

Dio è con noi, proclamava il presidente della grande nazione americana e la sua invocazione sembrava avere l'accento della verità.
Poi il sipario si abbassò. La lotta alla povertà raccolse qualche spicciolo e mise in piedi sei o sette ospedali nell'intero continente africano. Il conflitto palestinese si trasformò in un mattatoio con quotidiana macellazione da ambo le parti. Sharon fu convocato un paio di volte a Washington affinché allentasse almeno la morsa di ferro attorno alle città palestinesi ma rispose invariabilmente di no tornandosene frettolosamente a casa. Alla fine Bush gli dette ragione. Da allora di queste bazzecole si smise di parlare e Enduring Freedom diventò quello che in realtà era stata fin dall'inizio, cioè un'operazione militare pura e semplice con esiti tuttora aperti e alquanto purulenti.

Ma oggi, nell'isola di Terceira dell'arcipelago delle Azzorre, George Bush fiancheggiato da Blair e da Aznar ripresenterà al mondo la mossa palestinese. Nel varietà napoletano un certo tipo di mossa si chiama "la patapunfete" . Questa le assomiglia maledettamente. La drammatica, insolita e sconvolgente verità, che esiste evidentemente da tempo ma che è emersa con fragore in queste ultime settimane, è che l'America non ha alleati. Li ha persi per la strada quasi senza accorgersene. Non li ha nelle pubbliche opinioni ma neppure nelle Cancellerie. Non li ha tra le medie potenze che pure hanno vincoli d'interessi corposi e di fitte interdipendenze, ma neppure tra gli Stati piccoli e piccolissimi che vivono a ricasco delle sue elemosine. Non li ha tra i poveri del mondo e neppure tra i ricchi. Non li ha tra i giovani di Porto Alegre ma neppure tra i vecchi banchieri e finanzieri di Davos. E non li ha nel Consiglio di sicurezza dell'Onu.

Quest'ultima circostanza, anche se sgradevolissima dal punto di vista delle procedure internazionali, sarebbe tuttavia poca cosa se la maggioranza dei membri dell'Onu fosse compattamente schierata con Washington. In altre occasioni - per esempio nella guerra di Corea del 1951, essendo il Consiglio di sicurezza paralizzato dai veti russo e cinese - gli Usa fecero appello all'Assemblea generale. Era irrituale ma rappresentò comunque una copertura morale. Questa volta Bush potrebbe fare altrettanto ma evidentemente non se la sente. Preferisce scavalcare l'Onu anziché tastare il polso dell'Assemblea.

Del resto, se i sei Paesi membri pro-tempore del Consiglio di Sicurezza - Cile, Messico, Guinea, Pakistan, Camerun, Angola - che hanno bisogno dei dollari americani come dell'aria che respirano, non rispondono alle pressioni di Washington; se la Turchia (la fedelissima Turchia) non ha ancora aperto alle truppe Usa l'accesso al fronte settentrionale iracheno; se Putin, l'amico ritrovato, ribadisce un giorno sì e l'altro pure d'essere pronto a bloccare ogni ultimatum a Saddam; ebbene tutto ciò deve pur significare qualche cosa. Deve significare che un mutamento molto profondo deve essere avvenuto nell'opinione pubblica mondiale. Non se n'era accorta l'America e neppure l'Europa. L'antiamericanismo europeo non è mai esistito e non esiste tuttora, ma esiste una crescente estraneità.

L'estraneità è un sentimento complesso. Non è inimicizia, non è antipatia, non è rivalità. Ma certo non è appartenenza. Il resto del mondo non sente di appartenere all'America. Nel momento in cui l'Amministrazione Bush rivendica l'Impero, il mondo si tira indietro; se c'è di mezzo una guerra il resto del mondo dice no. Saddam è pessimo, ma il punto non è questo. Anche i sudanesi lo sono, anche gli indonesiani, anche i pachistani, anche i siriani, anche gli emiri del Golfo, anche i colombiani, anche i ruandesi, anche la Costa d'Avorio, anche i congolesi. L'elenco è sterminato. Come risolverlo? Un solo gregge sotto un solo pastore? Il resto del mondo dice no.

Tony Blair è disperato di questa situazione. Si può capirlo. È stato per cinque anni l'enfant gâté di Gran Bretagna e dell'Europa della nuova sinistra. Poi, flessibilmente, lo è diventato anche della nuova destra. Aveva come obiettivo l'ingresso nell'euro e come guiderdone a portata di mano la carica di presidente quinquennale dell'Europa allargata. Simpatico a tutti, perfino alla Fallaci che non è certo di buona bocca: ieri Oriana gli ha fatto dono della sua Toscana, regione immaginaria di cui lei dispone con poteri sovrani di investitura.

In più, e soprattutto, Blair era l'amico incrollabile ed anzi il direttore spirituale del caro Bush. Una maggioranza schiacciante ai Comuni. Amico di tutti perché a tutti dà del tu (non esiste altra forma verbale nella lingua inglese ma molti non lo sanno o fanno finta). All'improvviso si ritrova con un paese contro, l'Onu contro, mezza Europa contro, il guiderdone archiviato, mezzo Labour in rivolta, la piazza del suo paese in subbuglio.

Certo, quando tra poco i cannoni cominceranno a tuonare l'Inghilterra avrà il suo generoso soprassalto patriottico. O forse no, si vedrà. Ma intanto è nelle peste. La mossa palestinese l'ha imposta lui, meglio tardi che mai, ma la puzza di strumentalismo la sentirebbe anche un bambino. Aznar se ne può anche infischiare, aveva già deciso di non correre alle prossime elezioni e se il suo partito perderà come appare molto probabile lui punterà su qualche carica di prestigio. Ma Blair non è tipo da accontentarsi di così poco. Mister Flessibilità farà di tutto per restare in gioco ma, al punto in cui è, le carte buone le ha già giocate tutte: è stato alla destra della sinistra, poi alla sinistra della destra, poi ha detto che destra e sinistra sono parole senza senso. È un percorso che conosciamo, i suoi "laudatores" - dentro e fuori dall'Inghilterra - lo hanno fervorosamente imitato e qualche cosa ne hanno ricavato ma roba da poco, "sportulae" o promesse di "sportulae". Chi si contenta gode, ma lui non è di quelli. Il suo vero obiettivo era nientemeno che di resuscitare l'Impero per interposto Bush: un en plein al tavolo verde. Le probabilità sono una su trentasei. Ma un premier che gioca alla roulette le sorti del suo paese, diciamolo, non è granché.

C'è un rischio terribile in tutto ciò che accade e sta per accadere. Chi l'ha visto più lucidamente di tutti è stato Giovanni Paolo II. Infatti è proprio lui ad aver usato le parole più fosche: "Questa guerra", ha detto, "è criminale". Ha usato e fatto usare dai suoi curiali proprio questa parola: criminale. Nessuno era arrivato a tanto. Perché si è spinto fino a questo punto? Per le vittime innocenti che saranno mietute come il grano sotto la falce? Per i bambini che moriranno, anzi che già muoiono? Per l'amore cristiano della pace?

Tutti questi sentimenti sono profondamente radicati nell'anima del pontefice ma non bastano a spiegare. C'è un'altra ragione che riguarda i cristiani ma non soltanto loro: il papa sa che questa guerra aprirà un solco enorme tra l'Occidente e l'Islam, cioè tra le due grandi religioni del mondo. Se questo avverrà, il mondo degli anni e forse dei secoli futuri sarà terribilmente diverso, più feroce, più imbarbarito, più bellicoso, più dominato dal terrore, meno libero, meno democratico. Wojtyla vedeva un mondo religioso ecumenico solidale, dominato dalla religione dell'amore e quindi - al di là dei riti e delle specifiche appartenenze - più cristiano. Ma se lo scontro tra le due civiltà avrà pieno corso, quel mondo sarà sostanzialmente fondamentalista.

Per questo il papa cristiano parla di guerra criminale. Tutte le guerre lo sono ma non tutte sono state guerre tra civiltà, anzi questo è avvenuto molto di rado, per l'appunto, per mille e cinquecento anni tra Occidente e Islam. Questa guerra rischia di esserlo di nuovo. Ecco il pericolo ed è tremendo.

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