Da Corriere della Sera del 17/02/2003

«Fattore F», il dilemma di un presidente

di Massimo Nava

PARIGI - Per quanto amato come non mai dal suo popolo e applaudito da folle immense nelle piazze del mondo, Jacques Chirac è un uomo solo e angosciato di fronte alla guerra. Non perché gli spetti l’ultima decisione, ma perché residue possibilità di evitarla e soprattutto il modo in cui la comunità internazionale la combatterà dipendono in larga misura dal «fattore F», dalla strada che lui ha fatto imboccare alla Francia dall’inizio della crisi.
Stretta, forse cieca, lastricata di pregiudizi e ironia sulla grandeur , però responsabile e coraggiosa nel tentativo di fermare le bombe o almeno di farle sganciare nella legalità internazionale. Le opposte propagande di guerra e pace, il «veto» espresso dalle piazze, il peso dei media hanno sovraesposto l’atteggiamento di Parigi e radicalizzato le posizioni, probabilmente al di là delle intenzioni di partenza dello stesso Chirac. Fra i danni collaterali della guerra annunciata ci sono le divisioni dell’Europa e della Nato, la debolezza dell’Onu, l’antiamericanismo non meno pericoloso oggi, di fronte al terrorismo, che all’epoca della guerra fredda di fronte al «fattore K». Ma, fra gli effetti del «fattore F», ci sono l’unità dei cittadini europei contro la guerra, la possibilità (e l’utilità) di criticare l’unilateralismo della Casa Bianca senza passare per antiamericani e forse la presa di coscienza delle conseguenze devastanti di un conflitto deciso fuori dalla legalità internazionale. Gli intensi contatti fra i leader alla vigilia del vertice europeo di Bruxelles, le correzioni di linguaggio da parte di Aznar e Berlusconi, il compromesso raggiunto nella Nato sull’assistenza militare alla Turchia e il tempo finora concesso agli ispettori dimostrano che il «fattore F» ha ridato coraggio ai cittadini, contenuto morale alle parole, valore a principi europei spesso solo enunciati, al punto che oggi la gente comune chiede a Chirac di non tradire una speranza, di tenere duro. Può sembrare paradossale che un presidente di centrodestra, in politica dall’epoca di Breznev, bersagliato dagli scandali e dato per morto alla vigilia delle elezioni, sia stato trasformato da Le Pen nel salvatore della Repubblica, da Bush in una specie di nuovo Gandhi, e dall’immaginario collettivo nel «vecchio europeo» che osa sfidare gli yankees. Misteri del villaggio globale, magie della politica ed enorme fortuna, come se avesse trovato lui la lampada di Aladino: del resto, dobbiamo a un francese la c onoscenza completa de Le Mille e una notte . Ma Chirac è solo e angosciato, perché, anche per lui, the game is over . A Washington già preparano i body bags per i soldati morti. Da oggi, ogni parola di Chirac suonerà come il via libera legale alla guerra o come l’inizio complicato di un nuovo sistema di relazioni internazionali destabilizzate. Basta leggere la sua intervista a Time per comprendere quanto sia grande il dilemma nelle stanze dell’Eliseo, come sia inesatto collocare Chirac fra le colombe, ma ancora prematuro prefigurare la capriola dell’ultimo minuto per partecipare al conflitto. Chirac non esclude alcuna opzione, rassicura gli Usa sui vincoli di amicizia, ricorda persino agli americani quanto gli piacciano gli hamburger, ma non ritiene che ci siano oggi le condizioni per l’intervento. Per questo dice di no anche a una seconda risoluzione che gli porrebbe un dilemma anc ora più pesante: il semaforo verde alla guerra o l’imbarazzo del veto. E a Bush suggerisce il modo di fare marcia indietro senza perdere la faccia : il disarmo di Saddam, ottenuto «anche» grazie alla pressione militare, «ma senza spargere una goccia di sangue». «Ho scommesso sulla cooperazione dell’Iraq, se mi sono sbagliato, ci sarà sempre il tempo di trarne le conclusioni». Il tempo, per Bush, è già scaduto. Chirac potrà sempre dire di aver fermato per un po’ le lancette, vincendo almeno la scommessa in patria: nel ruolo di colomba ha rassicurato cinque milioni di musulmani e tolto alla sinistra già malconcia anche l’arma del pacifismo.

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