Da Corriere della Sera del 31/03/2003

«Quattromila martiri pronti per Saddam»

Il regime: «Il soldato Alì ha aperto la strada». Yemeniti e ceceni starebbero combattendo a Sud

di Massimo Nava

BAGDAD - Ammesso che le abbia, Saddam Hussein non avrebbe bisogno di usare armi chimiche. Almeno per ora. Dai depositi della tradizione religiosa, che gli ispettori dell’Onu non hanno visitato e gli strateghi americani trascurato, il raìs ha riesumato un ordigno altrettanto micidiale, i cui effetti sono più estesi del campo di battaglia iracheno: soldati bomba e guerra santa. Il kamikaze che si è fatto esplodere l’altro ieri uccidendo e ferendo diversi marines non sarà un esempio isolato. Rappresenta una svolta nella guerra, teorizzata e messa in pratica. È il tassello, cinico o disperato fin che si vuole, della strategia difensiva del Paese, come se situazioni da giungla vietnamita o da intifada palestinese potessero riprodursi nel deserto e nelle vie di Bagdad. In questi primi dieci giorni di guerra, gli iracheni sono riusciti a trascinare i combattimenti sul terreno meno congeniale all’armata americana, al punto da fermare l’avanzata verso la capitale e impedire la conquista di Bassora. Uomini bomba, imboscate, concentramento di truppe nei centri urbani, coinvolgimento della popolazione civile: guerriglia, insomma, in questo caso «santa».
Avevamo già visto, nelle adunate militari, sfilare il corpo scelto dei kamikaze davanti ai palazzi del raìs oggi rasi al suolo. Sembrava una minaccia, una delle sorprese della propaganda del regime per evitare il conflitto. Ma i kamikaze esistono davvero e sono già entrati in azione. Soldati e volontari iracheni, volontari arrivati da Paesi islamici, iracheni tornati in patria per combattere. Le ramificazioni del partito Baath in Medio Oriente avrebbero fatto un buon lavoro di reclutamento. E secondo l’intelligence americana, yemeniti, palestinesi, ceceni starebbero combattendo a fianco degli iracheni a Nassiriya.
I bombardamenti a tappeto, con le immagini in mondovisione di donne e bambini dilaniati dai missili, hanno moltiplicato le disponibilità. «Almeno quattromila», giura il generale Hazem Al Rawi, portavoce dell’Esercito, il quale spiega il salto di qualità per la difesa del Paese: «Il soldato Alì ha aperto la strada della guerra santa. Ci sono migliaia di soldati e cittadini pronti a sacrificare la loro vita per il Paese. E migliaia di uomini arrivati dai Paesi arabi, nessuno escluso. Siamo musulmani, siamo credenti, la Jihad è un dovere, come è scritto nel Corano». Un altro generale, a Bassora, dichiara che «a ogni passo, gli invasori troveranno chi è pronto a sacrificarsi». È difficile valutare il numero degli aspiranti suicidi, ma è evidente l’impatto che gli emuli del soldato Alì potrebbero avere sulle sorti o almeno sulla durata della guerra. Basta girare per Bagdad sotto i bombardamenti per rendersi conto dell’accoglienza che gli iracheni hanno preparato in caso di invasione americana della capitale. Un inferno, popolato da miliziani appostati in ogni angolo di una città sterminata. Non si vedono soldati in divisa né mezzi blindati, ma guerriglieri e civili con armi leggere. Una giungla urbana, impossibile da controllare. L’uso dei kamikaze, secondo il regime, non cambia le regole di guerra.
Si tratta pur sempre di attacchi contro soldati nemici. Questo il regime non lo precisa, essendo note le simpatie per i kamikaze palestinesi. «Chi ha cambiato le regole di guerra - tuona il generale Hazem Al Rawi - sono gli invasori americani, che bombardano e uccidono civili. Noi non abbiamo cominciato l’aggressione, non abbiamo ucciso gente inerme, non abbiamo bombardato né Londra né Washington». Il generale descrive con orgoglio la scelta del soldato Alì, vera arma non convenzionale di Bagdad: «Le armi proibite sono quelle che vengono usate dagli invasori per uccidere innocenti: proiettili all’uranio impoverito, bombe a frammentazione. Questo è il loro crimine e potrebbero usare di peggio».
Le affermazioni del generale lasciano capire come sia cambiato rapidamente anche il linguaggio della guerra. Ieri mattina il ministro dell’Informazione non ha mai nemmeno usato l’aggettivo «anglo-americani». Li chiama «mercenari» e «criminali di guerra» che «distruggono anche gli acquedotti».
Ma siccome la guerra non gli ha fatto dimenticare esperienze culturali, paragona «gli aggressori» ai condottieri romani «i quali distruggevano di notte i villaggi che promettevano di proteggere di giorno».
«Fanno così anche oggi, incendiano i nostri depositi di viveri e poi ci mandano gli aiuti umanitari».
Assicura che l’Iraq rispetterà la convenzione di Ginevra per i prigionieri e la tradizione musulmana per la sepoltura dei caduti nemici. «Noi musulmani li seppelliamo sul posto subito». Dal primo giorno di guerra, Saddam Hussein si è richiamato alla guerra santa. L’altro ieri ha dichiarato eroe nazionale il soldato Alì.
Nella seconda guerra del Golfo, la parabola del regime sembra dunque compiersi, e forse concludersi, in una tragica involuzione della storia e dell’identità nazionale degli iracheni. Prima delle avventure belliche del raìs, l’Iraq era il più laico, moderno e sviluppato dei Paesi del mondo arabo, considerato dall’Occidente una barriera al fondamentalismo e alla rivoluzione iraniana. Il regime ha decapitato opposizione, classe media e intellettuali. Le guerre e l’embargo hanno spento il futuro di intere generazioni. Il fattore religioso ha finito per dare una mano al raìs e una speranza ai poveri. Da Bagdad sono scomparse discoteche e casinò e si sono moltiplicate moschee che oggi rinnovano l’appello alla guerra santa. Chi cercava collegamenti con il terrorismo internazionale ora può trovarli tra le macerie dei mercati di Bagdad, negli sguardi di chi tiene fra le braccia cadaveri dilaniati. Quanti Bin Laden sono nati in questi giorni in Iraq?

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