Da La Repubblica del 09/03/2003
Il pacifismo alla prova del fuoco
di Ilvo Diamanti
COSA resterà del movimento contro la guerra, del sentimento contro la guerra, domani, quando la guerra avrà preso avvio? Quando sarà passata? Quanta influenza, quale presenza manterrà, sul piano sociale? Come modificherà gli orientamenti politici? E lecito chiederselo, mentre la società e i governi - in molti paesi, il nostro compreso - percorrono strade divergenti. E mentre la guerra appare un fatto imminente. L’impressione è che la protesta possa ridurre la sua ampiezza e l’emozione collettiva raffreddarsi.
Ma non sarà più come prima. Il clima d’opinione diffuso contro la guerra, che si manifesta attraverso una molteplicità di segni visibili, è probabile che, se e quando gli Usa e i loro alleati interverranno in Iraq, possa ripiegare. È avvenuto anche in passato, come suggeriscono i sondaggi svolti in occasione del primo intervento in Iraq. Dodici anni fa. Anche allora il dissenso, in Europa, appariva maggioritario, nonostante che l’Iraq fosse responsabile dell’occupazione del Kuwait. Ma pochi giorni dopo l’avvio dell’operazione militare l’opinione pubblica aveva cambiato radicalmente atteggiamento.
E ciò che i governi e i settori favorevoli all’intervento - con qualche se e ma - sperano si riproduca anche in questa occasione. Contano, cioè, che “durante” e “dopo” la guerra, la “società media”, la “gente comune”, oggi decisamente schierata”contro”, cambi idea, riallineandosi su posizioni più prudenti, in virtù di alcune ragionevoli considerazioni.
1) La guerra, quando esplode, suscita (estremizza) domanda di sicurezza, difesa; spinge a riferirsi alle istituzioni d’ordine; agli organismi di difesa. Interni e internazionali. Il timore nei confronti di una minaccia prossima, si trasforma, quando la minaccia si materializza. Di fronte a un evento drammatico in atto, il rifiuto tende a tradursi in ricerca di tutela, rivolgendosi a soggetti e istituzioni “forti”, ai quali “affidarsi”.
2) Inoltre, la guerra radicalizza la logica dell’opposizione noi/loro; la ricerca del nemico; l’enfasi sulla differenza (e sull’appartenenza) di civiltà. Per questo, l’avvio dell’intervento armato potrebbe indurre alcuni settori sociali, quelli che stavano alla periferia del dissenso, a riconvertirsi; a esprimere un “consenso timido”.
3) La fine della guerra potrebbe ridimensionare dissensi e paure, a maggior ragione, se fosse breve; se non producesse un bilancio di vite drammaticamente esteso (ma può un bilancio di vite perdute non essere comunque drammatico?) e (soprattutto) “visibile”; se realizzasse l’obiettivo annunciato dagli Usa: la detronizzazione di Saddam, la neutralizzazione delle sue milizie e delle sue armi, l’avvio in Iraq di un regime più aperto, se non democratico.
Allora al sentimento di preoccupazione e rifiuto, che precede la guerra; alla paura, che l’accompagna, subentrerebbero il sollievo, la voglia di normalità, che segue ogni evento drammatico. Non solo nelle popolazioni coinvolte direttamente; nei paesi protagonisti e vittime della guerra. Anche altrove; anche da noi. Perché la globalizzazione ci fa, comunque, parte di ogni evento e di ogni tragedia. E in modo diretto o indiretto, ce ne fa pagare alcuni costi. In termini di benessere (malessere) economico, di reddito, psicologico. La quiete dopo la tempesta può rimarginare le ferite del sentimento, del risentimento sociale.
4) Ancora: prima della guerra si pensa alle conseguenze. Ai costi possibili. Dopo la guerra, si fanno i conti reali. Chi ha vinto e chi ha perso. E chi ha vinto esercita attrazione e influenza non solo sui gruppi dirigenti; anche sulla società. I vincitori, i loro alleati, possono dimostrare, sostenere, almeno, di avere avuto ragione. Possono rivendicare il controllo del paese “liberato”; come i ”vantaggi” economici della ricostruzione. Possono affermare un ruolo più importante nella geopolitica globale.
E' quindi possibile che un dissenso tanto generalizzato possa venire circoscritto e ridimensionato, domani. Durante e - ancor più - dopo la guerra.
Potrebbe sfumare, parallelamente, l’effetto che la protesta esercita sul piano politico. Abbiamo, al proposito, sottolineato poco tempo fa il “paradosso Berlusconi”. Un leader abituato a dettare l’agenda politica dopo aver “consultato” i sondaggi, costretto oggi ad assumere un orientamento che, dal sondaggi, risulta inviso a gran parte dell’opinione pubblica; costretto a marciare controvento, lui, capace come pochi altri di veleggiare sospinto dall’aria del “senso comune”. Rispetto a quanto si registra in Paesi - come Gran Bretagna e Spagna - i cui governi, per il sostegno all’intervento, stanno perdendo ampi consensi elettorali, in Italia questa tendenza sembra però avere un impatto più limitato. Ma, comunque, si avverte. Il dissenso verso la guerra, fra gli elettori che avevano votato perla Cdl nel 2001 e oggi affermano che voterebbero per il centrosinistra, è altissimo. E ancor più fra coloro, (quasi il 10%, sul totale degli elettori), che (dopo aver votato per i partiti del centrodestra nel 2001), oggi si dicono incerti (nostre elaborazioni sui dati del sondaggio Eurisko del 22 febbraio scorso). In queste componenti di elettori della Cdl, delusi o scettici, l’opposizione verso la guerra raggiunge un livello quasi doppio rispetto alla base fedele della coalizione.
Eppure è possibile, probabile, che anche quest’area gi dissenso politico che nasce a destra, si restringa, “durante” e “dopo” la guerra. L’attesa della guerra ha generato un malessere tanto ampio. Il dopoguerra lo può guarire. Ma solo in parte, crediamo. E difficilmente potrà, comunque, richiuderne le ferite, nascondérne le cicatrici. Per tre ragioni, fra le altre.
1) L’anteguerra è durato, sta durando, molto. Troppo, rispetto ad altre analoghe occasioni dell’ultimo decennio. Ciò ha favorito la diffusione di sentimenti e il radicarsi di movimenti sociali, che difficilmente svaporeranno. Anche perché lo stesso rinvio reiterato dell’intervento può essere colto, in qualche misura, come un segno di forza dell’opinione pubblica e di queste mobilitazioni; della loro capacità di frenare almeno i governi, le loro decisioni. Un segno di efficacia “politica”.
2) La guerra globale ha alimentato paura e incertezza globale. Le mobilitazioni di questi mesi comunicano, oltre alla richiesta di pace, una crescente domanda di senso, di comunità; costituiscono una reazione all’impotenza dell’uomo globale. Che la “soluzione” irachena non vanificherà.
3) Perché ci sia un dopoguerra, occorre che vengano meno i motivi che hanno innescato la guerra. Che ne emerga almeno l’aspettativa di una pace duratura. Ma dopo dodici anni di “interventi militari” su base internazionale, dopo che il terrorismo, con l’attentato dell’11 settembre, si è trasformato in “guerra globale”, è difficile percepire il prima e il dopo. Guerra. Ed è difficile, per questo, dire (se non credere), una volta per tutte che “la guerra è finita”.
I movimenti, le mobilitazioni, i segni di partecipazione, le opinioni (tanto palpabili, da rendere quasi pleonastici i sondaggi) emersi in questa fase possono rarefarsi, sono destinati a lasciare tracce visibili, in prospettiva. Non fosse altro che per aver fornito alcune informazioni non scontate, prima: che l’identificazione nei leader, la personalizzazione, la partecipazione “mediatica”, la politica dello spettacolo e degli spettatori, non sono un destino già scritto e immutabile. Non costituiscono l’unica (penosa) via che collega società e politica.
Ma non sarà più come prima. Il clima d’opinione diffuso contro la guerra, che si manifesta attraverso una molteplicità di segni visibili, è probabile che, se e quando gli Usa e i loro alleati interverranno in Iraq, possa ripiegare. È avvenuto anche in passato, come suggeriscono i sondaggi svolti in occasione del primo intervento in Iraq. Dodici anni fa. Anche allora il dissenso, in Europa, appariva maggioritario, nonostante che l’Iraq fosse responsabile dell’occupazione del Kuwait. Ma pochi giorni dopo l’avvio dell’operazione militare l’opinione pubblica aveva cambiato radicalmente atteggiamento.
E ciò che i governi e i settori favorevoli all’intervento - con qualche se e ma - sperano si riproduca anche in questa occasione. Contano, cioè, che “durante” e “dopo” la guerra, la “società media”, la “gente comune”, oggi decisamente schierata”contro”, cambi idea, riallineandosi su posizioni più prudenti, in virtù di alcune ragionevoli considerazioni.
1) La guerra, quando esplode, suscita (estremizza) domanda di sicurezza, difesa; spinge a riferirsi alle istituzioni d’ordine; agli organismi di difesa. Interni e internazionali. Il timore nei confronti di una minaccia prossima, si trasforma, quando la minaccia si materializza. Di fronte a un evento drammatico in atto, il rifiuto tende a tradursi in ricerca di tutela, rivolgendosi a soggetti e istituzioni “forti”, ai quali “affidarsi”.
2) Inoltre, la guerra radicalizza la logica dell’opposizione noi/loro; la ricerca del nemico; l’enfasi sulla differenza (e sull’appartenenza) di civiltà. Per questo, l’avvio dell’intervento armato potrebbe indurre alcuni settori sociali, quelli che stavano alla periferia del dissenso, a riconvertirsi; a esprimere un “consenso timido”.
3) La fine della guerra potrebbe ridimensionare dissensi e paure, a maggior ragione, se fosse breve; se non producesse un bilancio di vite drammaticamente esteso (ma può un bilancio di vite perdute non essere comunque drammatico?) e (soprattutto) “visibile”; se realizzasse l’obiettivo annunciato dagli Usa: la detronizzazione di Saddam, la neutralizzazione delle sue milizie e delle sue armi, l’avvio in Iraq di un regime più aperto, se non democratico.
Allora al sentimento di preoccupazione e rifiuto, che precede la guerra; alla paura, che l’accompagna, subentrerebbero il sollievo, la voglia di normalità, che segue ogni evento drammatico. Non solo nelle popolazioni coinvolte direttamente; nei paesi protagonisti e vittime della guerra. Anche altrove; anche da noi. Perché la globalizzazione ci fa, comunque, parte di ogni evento e di ogni tragedia. E in modo diretto o indiretto, ce ne fa pagare alcuni costi. In termini di benessere (malessere) economico, di reddito, psicologico. La quiete dopo la tempesta può rimarginare le ferite del sentimento, del risentimento sociale.
4) Ancora: prima della guerra si pensa alle conseguenze. Ai costi possibili. Dopo la guerra, si fanno i conti reali. Chi ha vinto e chi ha perso. E chi ha vinto esercita attrazione e influenza non solo sui gruppi dirigenti; anche sulla società. I vincitori, i loro alleati, possono dimostrare, sostenere, almeno, di avere avuto ragione. Possono rivendicare il controllo del paese “liberato”; come i ”vantaggi” economici della ricostruzione. Possono affermare un ruolo più importante nella geopolitica globale.
E' quindi possibile che un dissenso tanto generalizzato possa venire circoscritto e ridimensionato, domani. Durante e - ancor più - dopo la guerra.
Potrebbe sfumare, parallelamente, l’effetto che la protesta esercita sul piano politico. Abbiamo, al proposito, sottolineato poco tempo fa il “paradosso Berlusconi”. Un leader abituato a dettare l’agenda politica dopo aver “consultato” i sondaggi, costretto oggi ad assumere un orientamento che, dal sondaggi, risulta inviso a gran parte dell’opinione pubblica; costretto a marciare controvento, lui, capace come pochi altri di veleggiare sospinto dall’aria del “senso comune”. Rispetto a quanto si registra in Paesi - come Gran Bretagna e Spagna - i cui governi, per il sostegno all’intervento, stanno perdendo ampi consensi elettorali, in Italia questa tendenza sembra però avere un impatto più limitato. Ma, comunque, si avverte. Il dissenso verso la guerra, fra gli elettori che avevano votato perla Cdl nel 2001 e oggi affermano che voterebbero per il centrosinistra, è altissimo. E ancor più fra coloro, (quasi il 10%, sul totale degli elettori), che (dopo aver votato per i partiti del centrodestra nel 2001), oggi si dicono incerti (nostre elaborazioni sui dati del sondaggio Eurisko del 22 febbraio scorso). In queste componenti di elettori della Cdl, delusi o scettici, l’opposizione verso la guerra raggiunge un livello quasi doppio rispetto alla base fedele della coalizione.
Eppure è possibile, probabile, che anche quest’area gi dissenso politico che nasce a destra, si restringa, “durante” e “dopo” la guerra. L’attesa della guerra ha generato un malessere tanto ampio. Il dopoguerra lo può guarire. Ma solo in parte, crediamo. E difficilmente potrà, comunque, richiuderne le ferite, nascondérne le cicatrici. Per tre ragioni, fra le altre.
1) L’anteguerra è durato, sta durando, molto. Troppo, rispetto ad altre analoghe occasioni dell’ultimo decennio. Ciò ha favorito la diffusione di sentimenti e il radicarsi di movimenti sociali, che difficilmente svaporeranno. Anche perché lo stesso rinvio reiterato dell’intervento può essere colto, in qualche misura, come un segno di forza dell’opinione pubblica e di queste mobilitazioni; della loro capacità di frenare almeno i governi, le loro decisioni. Un segno di efficacia “politica”.
2) La guerra globale ha alimentato paura e incertezza globale. Le mobilitazioni di questi mesi comunicano, oltre alla richiesta di pace, una crescente domanda di senso, di comunità; costituiscono una reazione all’impotenza dell’uomo globale. Che la “soluzione” irachena non vanificherà.
3) Perché ci sia un dopoguerra, occorre che vengano meno i motivi che hanno innescato la guerra. Che ne emerga almeno l’aspettativa di una pace duratura. Ma dopo dodici anni di “interventi militari” su base internazionale, dopo che il terrorismo, con l’attentato dell’11 settembre, si è trasformato in “guerra globale”, è difficile percepire il prima e il dopo. Guerra. Ed è difficile, per questo, dire (se non credere), una volta per tutte che “la guerra è finita”.
I movimenti, le mobilitazioni, i segni di partecipazione, le opinioni (tanto palpabili, da rendere quasi pleonastici i sondaggi) emersi in questa fase possono rarefarsi, sono destinati a lasciare tracce visibili, in prospettiva. Non fosse altro che per aver fornito alcune informazioni non scontate, prima: che l’identificazione nei leader, la personalizzazione, la partecipazione “mediatica”, la politica dello spettacolo e degli spettatori, non sono un destino già scritto e immutabile. Non costituiscono l’unica (penosa) via che collega società e politica.
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