Da La Repubblica del 11/03/2003

I “falchi” Usa da Reagan a Bush

di Sandro Viola

L’AVVERSIONE dei pacifisti per gli strateghi della Casa Bianca, non è infondata. In effetti, quando scorriamo le biografie e i detti memorabili di quella dozzina di persone che, sparse tra il Pentagono, il Dipartimento di Stato e il National security council, hanno messo a punto in questi mesi l’attacco contro l’Iraq, è difficile non provare un senso d’inquietudine. Perché Cheney e Rumsfeld, la Rice e Wolfowitz, Perle. Feith e Bolton, Hadley, Joseph e Cambone, sono tutto meno che dei moderati. Sono anzi, in termini politici e ideologici, un gruppo d’estremisti. Gente che ha sempre visto nell’opzione militare la via più spiccia per salvaguardare la sicurezza degli Stati Uniti, e nell’Onu ha visto invece un ingombro, una tribuna per oratori inconcludenti, oltre che un ricettacolo di pulsioni antiamericane.
Sono quindici anni che l’attuale vicepresidente Dick Cheney, per esempio, teorizza l’uso sistematico della forza. Quando nell’89 il disfacimento dell’Urss era ormai lampante, egli suggerì, nella sua veste di segretario alla Difesa con Bush padre, una serie di pressioni militari che ne affrettassero il crollo. Nel ‘91, alla vigilia della guerra del Golfo, progettava l’impiego d’armi nucleari tattiche, e nel ‘92 già delineava un quadro del mondo post Guerra fredda in cui gli Usa scoraggiassero sul nascere - se necessario con l’uso del loro apparato bellico - la comparsa di qualsiasi potenza regionale o globale.
Quanto a Donald Rumsfeld, che di Cheney è amico da trent’anni, fu lui a sabotare nel ‘74 gli sforzi di Henry Kissinger per giungere con i sovietici agli accordi Salt II sulla riduzione degli armamenti nucleari. E lui che due anni fa, nominato segretario alla Difesa, ha farcito il Pentagono e il National Security Council con i Wolfowitz, i Khalilzad, i Feith, i Perle, i Crouch. Tutti falchi a 18 carati, che in articoli, conferenze e lezioni universitarie insistono da sempre sulle virtù della forza militare e sul deperimento delle diplomazie.
L’uno che s’era battuto contro la messa al bando delle armi chimiche, l’altro che era contrario al ritiro delle armi nucleari tattiche dall’Europa e dalla Corea del Sud, l’altro ancora che nel ‘96 aveva preparato per Benyamin Netanyahu, allora primo ministro d’Israele, un paper sulla necessità di gettare all’aria gli accordi di Oslo, l’altro ancora che è riuscito a silurare la Corte penale internazionale, e l’altro infine che nel giugno scorso non voleva l’accordo Bush-Putin sullo smantellamento dei due terzi delle testate nucleari russe e americane.
Che i pacifisti respingano una guerra voluta e progettata da questo tipo di strateghi, sempre lanciati a passare il Rubicone, insofferenti d’ogni status quo, e nei cui ragionamenti tutto si può trovare salvo un richiamo ai princìpi del diritto internazionale, è quindi comprensibile. Né conta il fatto che parecchi di essi sedevano già attorno a Bush padre, il cui governo ebbe una condotta nel complesso moderata. Perché lì, a contenerne le spinte, la riluttanza al negoziato, c’erano personaggi di grande esperienza e cautela come James Baker e Brent Scowcroft.
Ma adesso sono Cheney e i suoi a profilare le scelte cruciali degli Stati Uniti. E lo fanno con un misto di realismo, trionfalismo e oltranzismo, con una percezione profondamente pessimista del mondo hobbesiano che circonderebbe - a sentir loro - l’America, e con un’aggressività inquietante. Il tutto composto, poi, in una visione rigidamente unilateralista dei rapporti internazionali.
Sicché è lecito chiedersi se la politica di Washington non sarebbe stata la stessa d’oggi, o quasi, anche senza il trauma tremendo dell’11 settembre. Perché 11 settembre o no, la cosa certa è che le idee e gli impulsi di questo gruppo di consiglieri avrebbero comunque marcato la linea dell’amministrazione di Bush figlio. E l’avrebbero marcata nei modi che adesso sappiamo: l’impazienza per le strettoie poste dal ruleoflaw, l’uso della forza militare per garantire la sicurezza degli Stati Uniti e rimettere ordine nel mondo.
Ma se le nostre riserve e preoccupazioni sono giustificate, quel che non ha senso è descrivere i fautori della guerra americana contro l’Iraq come una banda d’avventurieri. Gente che ha perso il lume della ragione, priva dell’esperienza necessaria a navigare in un’epoca sempre più irta di pericoli, le cui scelte stanno trascinando l’America - e in varia misura tutti noi - verso il precipizio. Questo non è esatto.
I Cheney, i Rumsfeld, i Wolfowitz e via dicendo, non sono usciti dal buio. Furono in parte essi stessi (e nel caso dei più giovani i loro maestri) ad operare la grande svolta ideologica del partito repubblicano alla soglia degli Anni ‘80, recependo i fermenti politico-culturali del Sud e Sud-Ovest dell’America di quel tempo, e trasformando il partito di Eisenhower e Nixon nel partito di Ronald Reagan. Sicché furono loro, negli otto anni della presidenza Reagan, a impostare la politica che avrebbe condotto al crollo dell’Unione Sovietica e alla vittoria dell’Occidente nella Guerra fredda.
Può quindi essere utile ricordare che nei primi Ottanta, quando Reagan prese a parlare «d’impero del male” e varò il primo dei suoi due colossali programmi di riarmo, quelle iniziali spallate americane contro l’Urss suscitarono in Europa critiche e inquietudini non tanto diverse dalle accuse e apprensioni di questi mesi. Personalmente, per il po’ che conta, scrissi una quantità d’articoli imputando all’amministrazione americana una politica avventurista. Che cosa avrebbe ottenuto, dove avrebbe condotto, quella linea d’aperta provocazione nei confronti della superpotenza comunista? Non c’era forse il rischio di suscitare in un gruppo dirigente composto di malandati settantenni, consapevoli tra l’altro d’essere sull’orlo della catastrofe economica, una fuga in avanti, vale a dire la guerra nucleare? Quali motivi potevano spiegare l’abbandono della politica di “distensione” che per tre decenni aveva evitato lo scontro Usa-Urss e consentito di circoscrivere le crisi dette “locali”?
Si vide poi, invece, che quell’irruenza portò a uno dei massimi giri di boa nella storia del Novecento: la fine del comunismo. Rischi se n’erano corsi, certo, come venimmo a sapere anni dopo da due famose interviste di Edvard Shevardnaze e da un’altra di Gorbaciov:
qualcuno al Cremlino, tra l’84 e 1’85, aveva in effetti pensato alla guerra. Ma l’esito della politica reaganiana si dimostrò alla fine positivo. E se quell’esito non ci dà alcuna garanzia su ciò che potrebbe traboccare dalla guerra all’Iraq, esso ci obbliga però a prendere stavolta in considerazione, invece di scartarla a priori come irragionevole o addirittura delirante, la tesi dei falchi di Washington. La tesi d’un trauma mediorientale da cui possa scaturire il declino dei dispotismi, la comparsa di regimi più democratici, un progressivo svuota-mento del fondamentalismo e una riduzione della minaccia terroristica.

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