Da La Stampa del 01/04/2003

Liberato il Kuwait, i due leader (e i loro figli attualmente al potere) sono subito tornati su posizioni inconciliabili

1990, l´alleanza durata il tempo d´una guerra

La breve tregua fra Assad e Bush senior ai tempi di Desert Storm

di Mimmo Candito

CHE non sempre i figli somiglino ai padri pare un'accettabile legge naturale; e chi oggi sfoglia l'album della storia e risale fino al 1990, quando gli Usa stavano preparando la coalizione del Desert Shield prima di lanciare l'attacco di Schwarzkopf contro Saddam, non dovrà stupirsi molto di trovare tra le foto dell'epoca quella di due «padri» - l'allora presidente americano George Bush e l'allora presidente siriano Hafez al-Assad - che si stringevano la mano, sorridendo ai fotografi affollati davanti a quella sorprendente scena. E se i due «padri» di quel tempo si stringevano la mano, oggi può anche accadere che i loro due «figli» - il presidente americano in carica George W. Bush e l'attuale presidente siriano Bashar al-Assad - stiano decisamente dentro un percorso di rottura. Però, quando questa rottura tra i due porta i loro Paesi a un passo dal farsi guerra, allora siamo ben oltre la mancata somiglianza con i genitori. E appare ben chiaro come l'intero Medio Oriente si stia trasformando in un terreno dove la guerra americana rischia d'impiantarsi assai più saldamente di quanto fece la bandiera a stelle e strisce sulla collina di Ivo Jima. In realtà, è una ipocrita convenzione quella che pretende di attribuire alle fotografie ufficiali anche il racconto dei veri sentimenti che albergano nell'animo degli uomini politici. Perché quando, 13 anni fa, Bush padre fece quella sua sosta a Damasco, durante il viaggio verso l'Arabia Saudita dove si stava costruendo il Desert Storm, e si fece immortalare con la celebre stretta di mano, chi davvero avesse potuto leggere quello che stava passando per la testa del presidente americano avrebbe scoperto facilmente quanto il suo sorriso fosse di facciata. E avrebbe potuto misurare quanto fiele doveva comunque sorbire un presidente pur di guadagnare alla coalizione anti-Saddam un re di scopa (ma anche un affettuoso albergatore di centrali terroristiche) com'era Hafez al-Assad. In Medio Oriente s'è sempre detto che non v'è guerra possibile senza la partecipazione della armate dell'Egitto e non v'è pace possibile senza la firma del presidente della Siria. Perché se l'Egitto è la forza politica e militare che - per dimensioni, storia, ascendente sui popoli della Mezzaluna - ha il più rilevante ruolo attivo, spetta invece alla Siria - ancora per tradizione, la tradizione della sua radicalità politica - un decisivo ruolo d'interdizione. E se Bush padre dovette piegarsi a viaggiare nella «canossa» di Damasco, e stringere quella mano, lo fece proprio per quel potere d'interdizione che aveva il suo interlocutore: l'intesa immortalata della foto era un messaggio rivolto ai popoli arabi. Gli raccontava ch'era possibile allinearsi nel Desert Shield, visto che «perfino» Assad il Leone era della partita. Entrambi gli attori di quella foto - Bush e Assad - sapevano però perfettamente che la stretta di mano sarebbe durata giusto il tempo di sbrigare la pratica dell'invasione del Kuwait, e poi ciascuno sarebbe tornato al suo ruolo naturale. Così avvenne. Almeno fin che Hafez al-Assad tenne in mano la Siria. Poi, il passaggio del potere al suo giovane figlio, Bashar, un medico cresciuto e addottorato in Inghilterra, aveva lasciato immaginare che un tempo nuovo stesse arrivando nell'antico palazzo bianco di Damasco, e che la nuova generazione dei leader arabi (ci sono re Mohammed VI a Rabat e re Abdallah ad Amman, e il figlio di Mubarak che intanto scalda i muscoli) avrebbe più facilmente trovato un'intesa con l'Occidente. I fatti avevano anche rafforzato quell'idea, perché realmente processi riformatori sono stati avviati nei Paesi delle nuove leadership. Bashar, a novembre, mentre già si discuteva di guerra all'Iraq e Blair faceva da spalla al tremendismo di Bush, aveva viaggiato ufficialmente a Londra, su invito della Regina: era il primo viaggio d'un presidente siriano dal giorno dell'indipendenza, nel '46, e a nessuno sfuggiva ora il forte valore politico di quell'invito. La Siria poi, unico Paese arabo presente nel Consigllio di Sicurezza, aveva anch'essa votato la risoluzione 1441, che rimetteva in campo gli ispettori di Blix e ammoniva severamente Saddam Hussein a calare in tavola tutte le sue carte (specialmente gli arsenali di distruzione di massa), allinenando Damasco su una posizione che a molti arabi era apparsa decisamente imbarazzante per la dichiarata «fratellanza» che i popoli dell'Islam sventolano a ogni soffio d'aria. E tutto questo, comunque, dopo che Bush aveva già tirato fuori dalla manica il suo colpo vincente sulle angosce dell'America in crisi, l'Asse del Male colpevole di tutte le nefandezze che hanno spazio sul pianeta. E nell'Asse c'era finita anche Damasco. Poi i tempi della guerra minacciata si sono fatti sempre più rapidi, la spirale si è avvitata drammaticamente, e Bush (ma con lui decisamente anche Rumsfeld) hanno spinto un processo di polarizzazione che soddisfaceva certamente i progetti del conflitto in arrivo ma era anche un pugno in faccia alla politica, cioè a qualsiasi piano di risoluzione negoziata della crisi. Quanto più forti si facevano i preparativi dell'attacco di Franks, di tanto anche la posizone di Damasco s'irrigidiva, perché Bashar si trovava a dover fare i conti con un un Paese che l'Intifada di Gaza coinvolgeva aspramente e che l'etichetta dell'Asse aveva infuriato palesemente. Sollecitata dalle prime riforme annunziate dal nuovo Presidente, la società siriana trovava più spazio per manifestarsi: e in qualche modo imponeva a Bashar di tener conto del sentimenti popolari. Anche perché l'irrigidimento israeliano dettato da Sharon finiva per ridare un ruolo e una più forte soggettività politica ai miliziani Hezbollah in Libano. In parallelo, si andava anche attenuando la rabbiosa inimicizia che, fin dal '60, aveva diviso le due sezioni nazionali - la siriana e l'irachena - del partito Baath. E riprendevano i rapporti ufficiali che quella foto della stretta di mano aveva bruscamente tagliato. Naturalmente, accanto alle ragioni più o meno ideali per questa ripresa di relazioni di buon vicinato (l'«umma» musulmana, la solidarietà baathista, l'appoggio dovuto a un Paese arabo minacciato d'invasione), c'erano anche motivazioni di bassa ma consistente lega: violando l'embargo, la Siria importa quotidianamente dall'Iraq petrolio per 2 milioni di dollari, e vende a Baghdad manufatti e prodotti agricoli per un miliardo di dollari l'anno. Che sono cifre forse non stupefacenti, ma che di sicuro fanno un gran bene a un'economia siriana sempre in respiro corto. Due fatti, un mese fa, segnalavano comunque che all'America non piaceva davvero la posizione che Damasco andava assumendo. La prima era una notizia (allora passò quasi inavvertita) che forse Saddam stava sottraendo, agli ispettori ancora al lavoro, le armi chimiche e batteriologiche spostandole in Siria. E la seconda era una dichiarazione davvero non molto diplomatica di Powell, che si diceva compiaciuto della riduzione di truppe siriane in Libano e però aggiungeva: «Ma non so dire se questo significhi che finalmente Beirut non avrà più in casa forze militari d'occupazione». Presi dal rigonfiamento dei muscoli americani nel deserto kuwaitiano, si badò poco a quei due segnali. Ora il duro ammonimento di Rumsfeld e Powell - mentre l'esercito dei marines fatica a realizzare la sua guerra vittoriosa - pare voler superare la crisi irachena con un forte rilancio politico, aprendo ai venti di guerra un nuovo fronte. Tra Washington e Damasco torna il gelo, com'era al tempo dei due «padri» prima della foto con la stretta di mano. E forse si scopre, alla fine, che poi tra «padri» e «figli» non v'è molta differenza.

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