Da Il Mattino del 15/04/2003

Baghdad, retate anti-saccheggio

Entra in azione la polizia dell’ex regime: affianca i marines nelle strade

di Vittorio Dell'Uva

L’ululato delle sirene dovrebbe apparire rassicurante se non evocasse le paure che, fino a meno di una settimana fa, al suo apparire, incuteva la polizia di Saddam. Ma il generale Bassan Al Mussan, insediatosi con sedici uomini, nell'hotel Palestine, sotto l'occhio e la cura degli americani, sfodera il sorriso delle grandi occasioni per parlare di «nuova era» e di «ritorno imminente ad accettabili condizioni di sicurezza». Va da sè che esagera un po'. Dei duemila poliziotti di cui si annunciava l'impiego per impedire le quotidiane razzie, se ne sono visti, dal primo pomeriggio, poco meno di una quarantina a bordo di dieci auto che se ne sono andate in parata lungo la Rachid Street, il luogo simbolo della capitale. Procedevano, con la fondina vuota, impettiti e ben protetti. A guardare loro le spalle c'erano i marines a bordo degli Hammer, i fuoristrada del deserto collaudati durante la prima guerra del Golfo.
Da ieri, in ogni caso, il meccanisno delle pattuglie miste è partito con qualche effetto concreto. La necessità si era fatta tanto impellente da spingere monsignor Ferdinando Filoni, nunzio apostolico della santa Sede e unico ambasciatore rimasto a Baghdad, ad osservare: «Mi meraviglio che dietro le truppe di guerra non sia stato previsto l'arrivo di una polizia militare che impedisse i saccheggi».
Andava fermato, ammesso che non sia troppo tardi, il volano della protezione spontanea che si accompagnava a non poche manifestazioni di dissenso, recapitate a domicilio alla stampa internazionale che occupa due alberghi che si fronteggiano, il Palestine e lo Sheraton. Già all'alba di ieri un centinaio di manifestanti si sono insediati sotto il piedistallo ormai inutile della statua di Saddam abbattuta mercoledì scorso, hanno accusato gli Stati Uniti di preoccuparsi soltanto del petrolio e non delle esigenze del popolo. «Non è possibile che dopo una settimana vengano protetti soltanto il petrolio ed i ponti» era scritto su alcuni cartelli inalberati mentre serpeggiavano sentimenti tanto antiamericani da fare «rimpiangere Saddam» ad alcuni dei manifestanti.
La nuova determinazione, sollecitata ai marines, qualche risultato lo ha dato. Anche se i metodi anti-rapina sono apparsi assai sbrigativi. Agli arrestati viene calata una benda sugli occhi. Le loro mani sono immediatamente legate dietro alla schiena. Li aspettano alcuni recinti. Va peggio, però, a quanti finiscono nella trappola della milizia sciita. Prima di essere affidati ai marines che dovranno decidere del loreo destino, passano attraverso la «purificazione» all'interno delle moschee dove vengono resi abbastanza malconci. A tutti viene richiesto, con qualche sollecitazione brutale, di restituire la refurtiva. Nei luoghi deputati, si accumulano centinaia di frigoriferi, refrigeratori e persino servizi igienici sbrecciati, di cui nessuno mai sarà in grado di chiedere la restituzione.
Cadono nella rete anche i volontari arabi attratti a Baghdad dal sogno della Jihad e costretti in queste ore a nascondersi. Ieri ne sono stati presi una sessantina, molti dei quali soltanto per un sussulto di dignità non hanno provato a farsi passare per turisti per caso. A denunciarli sono gli stessi iracheni cui non sfugge l'accento di altri Paesi. Si spera che questa mattina il cielo di Bagdad non sia più oscurato dalle nubi nere sprigionate dagli incendi di edifici pubblici e di ambasciate occidentali come quella cinese cui ieri è stato dato l'assalto. Il problema, non da poco, riguarda i cecchini, gli irriducibili filo-regime: tengono nel mirino i marines, spesso, nella foga, sbagliano bersaglio ferendo i civili.
L'immagine del «musulmano» Saddam non occhieggia più dalla grande teca rivolta verso la Mecca. Da giorni ne hanno strappato il ritratto. Altri volti, al suo posto, spiegano quale è il volere del popolo. Severo è lo squardo, su due manifesti, di Alì, il grande profeta degli sciiti.
Non è l'ora della preghiera, ma è come se lo fosse per la folla che scompare oltre gli ampi drappi neri. Gli imam hanno molte cose da dire. E da fare. Vogliono che arrivi da loro la risposta concreta al caos che la guerra ha portato.
Alì, il più autorevole sceicco del quartiere, innnanzi alla cui casa si è formata una fila, mescola fede e politica per un test del proprio potere. Avanza verso i cancelli del carcere di sicurezza di Kadimia per ricordare che alle autorità religiose non c'è esercito che possa sbarrare più il passo. Poco conta che le celle siano ormai vuote e che di chi vi è scomparso non si trovi più traccia. I marines lasciano che faccia anticamera, ma è il tenore della sfida che piace ad un centinaio di persone che allo sceicco si stringono intorno.
Vedono che il clero sciita è con loro e apertamente si mostra. In un Paese che si sente orfano sia pure di un cattivo patrigno, non è cosa da poco. Una donna, Dehal Hadi, chiede di sapere se è nel carcere che hanno sepolto la sorella, sparita da dodici anni. Altri raccontano la vita senza fortuna dei «desaparecidos» dell'Iraq stritolati dal Mouthabarak: Talib, che aveva parlato pubblicamente contro il raìs, fu a venti anni «mandato a sparire» al fronte nei giorni della guerra contro l'Iran. Il pacato dissenso di Ahmad si dissolse nei sotterranei, come la sua indentità, appena superate le mura del carcere.
Un guardiano della moschea arringa la folla: «L'Iraq ha bisogno di un governo sciita. Siamo i soli che si sono opposti a Saddam e che hanno pagato. Siamo stati costretti ad una vita senza sole e senz'acqua. Il nostro giorno è venuto». Altri già indicano l'ampia rosa in cui va individuato il nuovo leader che orienti il Paese: «Non è questione di nomi. Chiunque venga dalla scuola Al Hawze a Najaf può assumere la guida di tutti». Najaf, con Kerbala, è una delle due città sante degli sciiti, verso cui lo stesso raìs non aveva potuto impedire che viaggiassero pellegrini provenienti dall'Iran. Lo sceicco Alì ascolta, annota e si fa sibillino: «Il futuro è soltanto nelle mani di Allah».
Nel vuoto di potere che con l'invasione si è delineato, il clero sciita prova a scavare in fretta sotto la forte laicizzazione dello Stato lasciata in eredità dal raìs. Ma contempraneamente già si propone come un contropotere nei confronti degli americani, ancora indecisi tra un «governatorato» ed un governo fantoccio da controllare e imbeccare. E sono ora gli imam, più che i marines, che stanno mettendo freno all'anarchia. Non c'è moschea ai cui cancelli manchi uno striscione per ricordare che rubare è un delitto che Allah non perdona. In ogni piazza compaiono appelli dello stesso tenore.
Saddam City, il recinto alla periferia di Baghdad - due milioni di emarginati sciiti con poco lavoro, da cui sono partite molte delle bande di saccheggiatori - è da ieri laboratorio di un nuovo ordine cui si affidano immediati effetti sociali. Già la stessa denominazione è cambiata: il quartiere verrà chiamato Al Sadr, in ricordo dell’ayatollah che il raìs fece eliminare nel 1999. E già una piccola «repubblica» dei religiosi. Dall'alto dei minareti vengono ossessivamente ripetuti gli editti contro il saccheggio che ha reso tutta Baghdad più insicura e più povera. Non c'è disposizione che non parta dalle moschee.
Milizie popolari, formate da centinaia di volontari armati che hanno il compito di sorvegliare ogni strada, fanno capo direttamente agli imam. E con loro i poliziotti che chiedono di tornare in servizio. Sono i predicatori a presidiare i posti di blocco e a coordinare comitati popolari incaricati di riprisitinare la fornitura di acqua ed energia. In molti degli ospedali della capitale i nuovi responsabili hanno la barba lunga e portano sempre con sè le pagine del Corano. Ali Shawki e Sadek Alaq, che vengono dalla scuola di Najaf da cui partirono i maestri di Khomeini, chiamano più di altri a raccolta gli sciiti che in Iraq sono il settanta per cento.
Washington aveva messo nel conto che al momento dell'invasione avrebbero dato una mano a cacciare ancor più rapidamente Saddam. Scopre invece che i suoi analisti non poco hanno sbagliato e che i «soci» possibili non erano poi così affidabili. A pochi metri dagli «Hanner», i veicoli speciali dei marines, l'imam Sadek Alaq denuncia: «Gli americani mi hanno contattato, ma ho rifiutato di parlare con loro. Non è degli Stati Uniti che noi abbiamo bisogno».

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