Da Corriere della Sera del 24/04/2003
«Bush otterrà questa pace. Ne ha bisogno»
di Ennio Caretto
WASHINGTON - «Era una condizione necessaria per l'attesa pubblicazione della road map, il percorso di pace tra arabi e israeliani. Ma potrebbe non essere sufficiente. Prima che questo governo palestinese entri in funzione, il presidente Bush potrebbe volere un chiarimento sul rapporto di forze tra Arafat e Abu Mazen o una loro campagna contro il terrorismo». L'ex consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca ed ex ambasciatore alla Nato Bob Hunter, uno dei massimi esperti americani di Medio Oriente, rileva che «per ora si può parlare solo di un passo avanti nella giusta direzione». Ma aggiunge: «Sono cautamente ottimista, perché Bush ha assunto un impegno preciso e ha i mezzi di imporsi alle due parti».
E' stato un cedimento di Arafat o un suo espediente per restare più a lungo al potere?
«E’ difficile dirlo. Arafat non aveva mai rinunciato alla totale autorità. Ma questa volta sembra essere stato costretto a scendere a patti con il nuovo leader. Può averlo fatto con riserva, pronto a rivendicare pieni poteri. Può anche averlo fatto prendendo atto che il momento della successione si avvicina. La politica palestinese è in fase di transizione, una fase cruciale».
La guerra in Iraq ha influito sull'accordo?
«Credo di sì, e in due modi. Da una parte, la caduta di Saddam Hussein ha dimostrato che l'America sa dispiegare la propria potenza per raggiungere i suoi fini. Arafat si deve essere chiesto: che cosa accadrebbe, se Bush decidesse che devo andarmene, chi mi difenderebbe, non rimarrei isolato? Dall'altra parte, Abu Mazen e i suoi devono avere pensato: Bush ha assunto degli obblighi nei confronti della Gran Bretagna e del Quartetto che ha lavorato alla road map, non perdiamo l'occasione buona, andiamogli incontro, spingiamolo a mantenerli».
Secondo lei il presidente manterrà la parola?
«Non ne dubito. Le dimostrazioni sciite in Iraq stanno alzando la posta in gioco. I falchi vorrebbero regolare i conti anche con la Siria e l'Iran, ma la stabilizzazione irachena e la soluzione del problema palestinese hanno per Bush la precedenza su tutto. Il presidente non vuole altre guerre, non in campagna elettorale, vuole la pace, e per raggiungerla deve imporsi a Bagdad e a Gerusalemme».
Quindi presenterà la road map?
«Sicuro, anche se non posso indovinare quando, spero molto presto. Abu Mazen gli dirà: abbiamo rimosso il principale ostacolo ai negoziati, stiamo mettendo fine alla violenza, fa la tua parte per la ripresa del dialogo. Bush non potrà tirarsi indietro, e a mio parere non ne ha l'intenzione».
Ma il percorso tracciato dal Quartetto è sgradito al premier israeliano Sharon...
«C'è un equivoco sulla road map. Non sono le tavole della legge, sono un punto di partenza. È una sciocchezza sostenere che non si può cambiare nulla. Prevedo negoziati intensi, lunghi e difficili. Bush dovrà premere anche su Sharon: mi auguro che faccia, soprattutto a proposito degli insediamenti. Bush è un leader molto determinato».
I contrasti tra la cosiddetta vecchia Europa e l'America non renderanno il Quartetto impotente?
«Il merito del Quartetto è di avere dato legittimità al piano di pace. Ma con tutto il rispetto dovuto all'Onu, all'Ue e alla Russia, va sottolineato che chi conta di più in Medio Oriente siamo noi. Dopo israeliani e palestinesi, è dalla nostra amministrazione che dipende l'accordo».
E' stato un cedimento di Arafat o un suo espediente per restare più a lungo al potere?
«E’ difficile dirlo. Arafat non aveva mai rinunciato alla totale autorità. Ma questa volta sembra essere stato costretto a scendere a patti con il nuovo leader. Può averlo fatto con riserva, pronto a rivendicare pieni poteri. Può anche averlo fatto prendendo atto che il momento della successione si avvicina. La politica palestinese è in fase di transizione, una fase cruciale».
La guerra in Iraq ha influito sull'accordo?
«Credo di sì, e in due modi. Da una parte, la caduta di Saddam Hussein ha dimostrato che l'America sa dispiegare la propria potenza per raggiungere i suoi fini. Arafat si deve essere chiesto: che cosa accadrebbe, se Bush decidesse che devo andarmene, chi mi difenderebbe, non rimarrei isolato? Dall'altra parte, Abu Mazen e i suoi devono avere pensato: Bush ha assunto degli obblighi nei confronti della Gran Bretagna e del Quartetto che ha lavorato alla road map, non perdiamo l'occasione buona, andiamogli incontro, spingiamolo a mantenerli».
Secondo lei il presidente manterrà la parola?
«Non ne dubito. Le dimostrazioni sciite in Iraq stanno alzando la posta in gioco. I falchi vorrebbero regolare i conti anche con la Siria e l'Iran, ma la stabilizzazione irachena e la soluzione del problema palestinese hanno per Bush la precedenza su tutto. Il presidente non vuole altre guerre, non in campagna elettorale, vuole la pace, e per raggiungerla deve imporsi a Bagdad e a Gerusalemme».
Quindi presenterà la road map?
«Sicuro, anche se non posso indovinare quando, spero molto presto. Abu Mazen gli dirà: abbiamo rimosso il principale ostacolo ai negoziati, stiamo mettendo fine alla violenza, fa la tua parte per la ripresa del dialogo. Bush non potrà tirarsi indietro, e a mio parere non ne ha l'intenzione».
Ma il percorso tracciato dal Quartetto è sgradito al premier israeliano Sharon...
«C'è un equivoco sulla road map. Non sono le tavole della legge, sono un punto di partenza. È una sciocchezza sostenere che non si può cambiare nulla. Prevedo negoziati intensi, lunghi e difficili. Bush dovrà premere anche su Sharon: mi auguro che faccia, soprattutto a proposito degli insediamenti. Bush è un leader molto determinato».
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