Da Il Sole 24 Ore del 01/05/2003

Gli Stati Uniti lasciano l'Arabia Saudita

di Ugo Tramballi

DOHA - Dopo 13 anni controversi, con attentati, morti e l'apparizione di un mostro chiamato Bin Laden, gli americani lasciano l'Arabia Saudita. In attesa che si chiarisca se l'Irak potrà diventare la loro nuova base mediorientale, prendono casa nel piccolo e rassicurante Qatar. Cambia la mappa militare americana, premessa di ruoli più ampi e sostanziali della superpotenza nella regione. Ma è l'intero Medio Oriente che ieri ha dato segni di raro dinamismo anche se ieri notte da Israele è arrivata la notizia di un nuovo attentato suicida a Tel Aviv. Il siriano Bashar Assad ha scritto all'israeliano Ariel Sharon, proponendogli di riaprire la trattativa sulle alture del Golan; davanti al parlamento di Ramallah il nuovo primo ministro Abu Mazen, eletto senza sorprese, ha presentato un programma che per mesi gli americani e gli europei sognavano di sentir illustrare da un palestinese; dopo tanto sparare, la potenza americana rimette in moto la sua diplomazia: Colin Powell sta per tornare nella regione con due viaggi in meno di una settimana. Ancora una volta, dopo una guerra, il Medio Oriente si rimette in marcia; la sua cronica staticità politica d'improvviso si anima; la speranza di risolvere conflitti antichi, riprende corpo. Ma è già successo quattro o cinque volte nell'ultimo mezzo secolo. La curiosità prevale sull'entusiasmo. I sauditi. «È stato davvero un accordo consensuale», spiega un diplomatico della delegazione di Donald Rumsfeld, a Riad. I soldati americani cesseranno di calpestare il suolo più sacro dell'Islam, quello che ospita Mecca e Medina: era il pretesto di Osama Bin Laden per dichiarare guerra all'America e trovare guerrieri. Ma anche la famiglia reale, in fondo non amando quella presenza, aveva sempre desiderato l'annuncio. I sauditi chiedevano solo di essere rimessi ai margini del grande gioco geopolitico regionale, volevano tornare alle silenziose abitudini del deserto, rese più agiate dalla ricchezza petrolifera. In questo generale ritorno alla calma, forse il reggente Abdullah potrà finalmente avviare le riforme da tempo annunciate: riforme economiche e sociali, non democratiche. Per gli americani, in realtà, non cambia molto. Continueranno a distanza a garantire la sicurezza del regno saudita, ricchissimo ma senza deterrente; e continueranno ad avere facile accesso al suo petrolio. Lo compravano prima della guerra per il Kuwait del 1991, quando non avevano basi in Arabia Saudita, non hanno smesso di comprarlo quando le avevano e continueranno a farlo ora che, di nuovo, non le avranno più. Chiude dunque la base Principe Sultan, 80 chilometri da Riad, e si allarga quella di al-Udeid, a una ventina da Doha. Diventeranno più importanti anche quelle negli altri emirati nel Golfo: Paesi più piccoli, governi più progressisti, società molto religiose ma appagate. Se gli americani impareranno a sparare un po' meno e la situazione si stabilizzerà, un giorno sarà l'Irak a essere il nuovo grande alleato americano nella regione. Ma la questione rimane per ora nei programmi non a breve termine del segretario alla Difesa Rumsfeld. I siriani. Per la serie dei fantasmi che a volte ritornano, le alture del Golan che Israele occupa dal 1967 tornano a essere un tema di dialogo. È quello che propone il giovane Bashar Assad in una lettera a Sharon. «È evidente - dice il ministro degli Esteri siriano Faruk al-Shara, rivelando l'esistenza del messaggio e dando per scontato un gesto politico inaspettato -. La Siria è contraria alla guerra. È con un accordo equo e globale che i territori occupati possono tornare ai legittimi proprietari». Sia Rabin che Barak erano arrivati con Hafez Assad a un passo da un accordo. Ora ci riprovano nuovi protagonisti. I palestinesi. «Rifiutiamo il terrorismo sotto qualsiasi forma e quale che sia la sua origine. Pensiamo che simili metodi non aiutino la nostra causa». Era da tempo che Abu Mazen e altri dirigenti palestinesi lo dicevano a Arafat, chiedendogli d'imporre la fine di un'inutile Intifada armata contro Israele. Ieri Abu Mazen lo ha ripetuto. Sempre che gli israeliani gli diano una mano: ieri nei Territori hanno ucciso altri tre palestinesi. E sempre che gli estremisti di parte palestinese decidano di partecipare alla nuova fase politica: «Naturalmente noi non disarmeremo», ammonisce il portavoce di Hamas, al-Rantisi. A conferma delle parole di Hamas ieri notte un kamikaze palestinese si è fatto esplodere in un bar sul lungomare di Tel Aviv provocando decine di feriti e almeno due morti. Si tratta del secondo attentato suicida palestinese in meno di una settimana. Ma ieri Abu Mazen, parlando al parlamento palestinese che ha confermato il suo Governo, ha forse aperto una nuova fase: «Dobbiamo mettere fine al caos di armi che rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza dei cittadini: sarà una delle nostre missioni fondamentali. Non c'è altro posto per le armi se non nelle mani del governo». La reazione israeliana è cauta: «È un buon inizio», ma «saranno giudicati dalle loro azioni», commenta il ministro degli Esteri Silvan Shalom. Anche Abu Mazen si attende buone azioni israeliane: una volta per tutte «scelgano fra colonizzazione» dei Territori «e pace». Gli americani. Con uno strano doppio periplo, il segretario di Stato Colin Powell torna in Medio Oriente un anno dopo il viaggio precedente. Alla fine di questa settimana visita Siria e Libano; giovedì della prossima, dopo essere tornato in America, andrà in Israele, Territori palestinesi, Giordania, Arabia Saudita ed Egitto. Due viaggi per due dossier: quello siriano riguarda gli strascichi della guerra irachena (a Damasco hanno capito che molte cose sono cambiate in Medio Oriente); ma ha anche a che fare con la nuova opportunità offerta da Bashar per una soluzione del Golan. Il secondo viaggio riguarda il conflitto israelo-palestinese e la "road map". Il piano per la ripresa della trattativa dovrebbe essere presentato oggi a israeliani e palestinesi dall'ambasciatore americano a Tel Aviv. La partenza sembra sotto tono ma le ambizioni - uno Stato palestinese entro il 2005 - sono alte.

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