Da Corriere della Sera del 06/05/2003
La sfida di Milano
E la difesa va all’attacco «Altri devono rispondere»
La scelta delle «dichiarazioni spontanee», un monologo che esclude la possibilità di fare domande
di Giovanni Bianconi
E per questo sceglie la via delle «dichiarazioni spontanee», un monologo senza interruzioni e senza la possibilità di fare domande. E’ uno dei paradossi di questo dibattimento, uno dei tanti. Un altro balza agli occhi quando il presidente del tribunale Luisa Ponti fa l’appello dei presenti, e si scopre che dietro l’imputato Berlusconi e i suoi avvocati siede l’avvocato di parte civile che rappresenta la presidenza del Consiglio (in teoria controparte degli imputati), cioè Berlusconi. Ma tant’è. Il capo del governo è qui per dire ai giudici quel che ha già detto molte volte: sotto processo non doveva finire lui, semmai altri.
Parla apertamente di tangenti, l’accusato che si trasforma in accusatore: non quelle che, secondo la Procura, avrebbe pagato lui tramite gli avvocati Previti e Pacifico, poi finite nelle tasche di alcuni giudici ora alla sbarra proprio per questo. No, il presidente del Consiglio di oggi, che all’epoca dei fatti (18 anni fa) era un imprenditore molto vicino all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, parla di tangenti che - gli disse proprio Craxi allora, rivela oggi - erano destinate a una corrente della Dc, e si dovevano ricavare dalla vendita della Sme.
L’imputato Berlusconi è qui per dichiarare, non per rispondere alle domande di giudici, pubblici ministeri e avvocati. Così nessuno può chiedergli come mai né di quelle presunte tangenti né della telefonata tra l’ex-sottosegretario Giuliano Amato e l’ex-presidente della commissione Bilancio della Camera Cirino Pomicino in cui il primo diceva al secondo di avere «le prove» della truffa, fece cenno nell’interrogatorio al pubblico ministero di Roma che indagava sulla vendita della Sme. Era il 30 ottobre 1985, e davanti al sostituto procuratore Luciano Infelisi sedeva il testimone Silvio Berlusconi: quattro pagine di verbale nel quale si ricorda l’interesse poi svanito per la Sme da parte della Fininvest, lo «sconcerto» per la vendita alla Buitoni, i contatti con l’ex-ministro Altissimo, la cordata alternativa messa in piedi con Ferrero e Barilla. Ma non ci sono i nomi di Craxi né di Amato, né riferimenti alle tangenti altrui.
Diciotto anni dopo, davanti a giudici che si occupano di altro (non la compravendita della Sme, ma la presunta corruzione dei magistrati) tenta di aprire il capitolo taciuto allora. Chiede che ritorni a testimoniare Amato, ma bisognerà fargli «domande acconce», avverte. Forse per questo, magari per porne qualcuna anche lui, chiede che a quello e altri interrogatori possa essere presente, nonostante i suoi numerosissimi impegni di capo del governo, capo della coalizione di maggioranza, capo del partito di maggioranza, prossimo presidente di turno dei Consiglio europeo. «Troverò delle mattinate libere», promette, perché vuole esserci.
Sarà il tribunale, nelle prossime udienze, a stabilire se il contro-processo auspicato dall’imputato più eccellente potrà farsi in quest’aula. Quello che di sicuro i giudici di Milano tenteranno di portare a termine, a più di tre anni dall’apertura del dibattimento, è il processo numero 879/00, chiamato «Berlusconi » 8». Dove le presunte tangenti non sono quelle evocate ieri dal presidente del Consiglio, ma altre. Una, sostengono i pubblici ministeri, fu pagata nel marzo 1991 all’ex-giudice romano Renato Squillante, 500 milioni di lire usciti dalle casse della Fininvest e passati in due giorni dai conti di Previti a quelli del magistrato: il prezzo della corruzione secondo l’accusa, parte delle parcelle miliardarie di Previti versate all’altro imputato Pacifico per una semplice compensazione, secondo le difese.
In aula il testimone della difesa Berlusconi (nonché inquisito in altri procedimenti «connessi») Livio Gironi, già direttore finanziario della Fininvest, ha detto di aver effettivamente autorizzato il pagamento di alcuni miliardi a Previti in «nero». Ha spiegato di non averne mai parlato con Berlusconi, di essersi limitato a una mini-inchiesta dentro la Fininvest per capire quali attività aveva svolto Previti per meritarsi simili parcelle, e di essersi accordato con lui per la liquidazione «in nero» estero su estero. Di fronte ad altre domande, però, si è avvalso della facoltà di tacere. Probabilmente anche di quei soldi avrebbero voluto chiedere giudici e pm a Berlusconi. Ma l’imputato nonché capo del governo, ieri, è comparso per dichiarare, non per rispondere.
Parla apertamente di tangenti, l’accusato che si trasforma in accusatore: non quelle che, secondo la Procura, avrebbe pagato lui tramite gli avvocati Previti e Pacifico, poi finite nelle tasche di alcuni giudici ora alla sbarra proprio per questo. No, il presidente del Consiglio di oggi, che all’epoca dei fatti (18 anni fa) era un imprenditore molto vicino all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, parla di tangenti che - gli disse proprio Craxi allora, rivela oggi - erano destinate a una corrente della Dc, e si dovevano ricavare dalla vendita della Sme.
L’imputato Berlusconi è qui per dichiarare, non per rispondere alle domande di giudici, pubblici ministeri e avvocati. Così nessuno può chiedergli come mai né di quelle presunte tangenti né della telefonata tra l’ex-sottosegretario Giuliano Amato e l’ex-presidente della commissione Bilancio della Camera Cirino Pomicino in cui il primo diceva al secondo di avere «le prove» della truffa, fece cenno nell’interrogatorio al pubblico ministero di Roma che indagava sulla vendita della Sme. Era il 30 ottobre 1985, e davanti al sostituto procuratore Luciano Infelisi sedeva il testimone Silvio Berlusconi: quattro pagine di verbale nel quale si ricorda l’interesse poi svanito per la Sme da parte della Fininvest, lo «sconcerto» per la vendita alla Buitoni, i contatti con l’ex-ministro Altissimo, la cordata alternativa messa in piedi con Ferrero e Barilla. Ma non ci sono i nomi di Craxi né di Amato, né riferimenti alle tangenti altrui.
Diciotto anni dopo, davanti a giudici che si occupano di altro (non la compravendita della Sme, ma la presunta corruzione dei magistrati) tenta di aprire il capitolo taciuto allora. Chiede che ritorni a testimoniare Amato, ma bisognerà fargli «domande acconce», avverte. Forse per questo, magari per porne qualcuna anche lui, chiede che a quello e altri interrogatori possa essere presente, nonostante i suoi numerosissimi impegni di capo del governo, capo della coalizione di maggioranza, capo del partito di maggioranza, prossimo presidente di turno dei Consiglio europeo. «Troverò delle mattinate libere», promette, perché vuole esserci.
Sarà il tribunale, nelle prossime udienze, a stabilire se il contro-processo auspicato dall’imputato più eccellente potrà farsi in quest’aula. Quello che di sicuro i giudici di Milano tenteranno di portare a termine, a più di tre anni dall’apertura del dibattimento, è il processo numero 879/00, chiamato «Berlusconi » 8». Dove le presunte tangenti non sono quelle evocate ieri dal presidente del Consiglio, ma altre. Una, sostengono i pubblici ministeri, fu pagata nel marzo 1991 all’ex-giudice romano Renato Squillante, 500 milioni di lire usciti dalle casse della Fininvest e passati in due giorni dai conti di Previti a quelli del magistrato: il prezzo della corruzione secondo l’accusa, parte delle parcelle miliardarie di Previti versate all’altro imputato Pacifico per una semplice compensazione, secondo le difese.
In aula il testimone della difesa Berlusconi (nonché inquisito in altri procedimenti «connessi») Livio Gironi, già direttore finanziario della Fininvest, ha detto di aver effettivamente autorizzato il pagamento di alcuni miliardi a Previti in «nero». Ha spiegato di non averne mai parlato con Berlusconi, di essersi limitato a una mini-inchiesta dentro la Fininvest per capire quali attività aveva svolto Previti per meritarsi simili parcelle, e di essersi accordato con lui per la liquidazione «in nero» estero su estero. Di fronte ad altre domande, però, si è avvalso della facoltà di tacere. Probabilmente anche di quei soldi avrebbero voluto chiedere giudici e pm a Berlusconi. Ma l’imputato nonché capo del governo, ieri, è comparso per dichiarare, non per rispondere.
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