Da Corriere della Sera del 09/05/2003

Passato e presente

Oggi tutti per l’immunità Dieci anni fa molto meno

di Gian Antonio Stella

Gomma e cancellino, gomma e cancellino, gomma e cancellino... Fosse attivo il «Ministero della Verità» (quello che George Orwell in 1984 immaginava riscrivere quotidianamente la storia a uso del Partito dato che «il passato è quello che il Partito decide che sia») avrebbe da faticare assai: sposta avanti quel suicidio, sposta indietro quella battuta, sposta avanti quell’arresto, sposta indietro quelle manette... Un lavoraccio. Intorno all’immunità parlamentare al centro dell’offensiva di Berlusconi, i protagonisti della Casa delle libertà hanno scolpito infatti nel passato sentenze indimenticabili. Abolire l’immunità? Troppo poco, tuonava Gianfranco Fini: «E’ ora che si sospendano gli stipendi anche ai parlamentari inquisiti, se non altro a quelli per i quali è stata chiesta l’autorizzazione all’arresto che solo in virtù di un privilegio medioevale come l’immunità non hanno ancora fatto la fine del giudice Curtò». Altro che pacificazione!

«E’ ora che la classe politica si decida a considerarsi uguale a qualsiasi cittadino». Eravamo nel settembre ’93 e tutto si può dire meno che l’attuale vicepresidente del Consiglio non avesse già avuto modo di vedere quelli che oggi gli appaiono mostruosi crimini della magistratura: l’inchiesta per mafia su Andreotti (accolta con un urrah: «E’ la fine del regime e lo dimostra l’ autentico boato che ha salutato la notizia») era già stata aperta, Craxi già incriminato, Enzo Carra già ritratto in manette e poi Renato Amorese si era già ucciso e dopo di lui si erano ammazzati Sergio Moroni, Gabriele Cagliari e Raul Gardini... E lui? Mai un dubbio. Anzi.

«E’ inammissibile che si prenda spunto da questo suicidio», aveva liquidato la morte di Cagliari, «per avviare la campagna di delegittimazione dell’inchiesta che la magistratura sta conducendo contro le ruberie del sistema di potere». E a quell’Oscar Luigi Scalfaro che dal Quirinale aveva ammonito per primo i magistrati a fare attenzione «nell’abuso delle manette e degli arresti cautelari» aveva rifilato una bacchettata. Si risparmiasse le prediche, per favore: «Le sue suscitano perplessità soprattutto perché gli applausi vengono dai partiti di Tangentopoli».

Gli stessi che, grazie all’immunità parlamentare, avevano respinto poche settimane prima la richiesta di autorizzazione contro Craxi facendolo ribollire in una lettera a Francesco Saverio Borrelli: «Lo sdegno e l’amarezza che pervadono la Nazione di fronte allo scandaloso verdetto di autoassoluzione che il regime si è confezionato con il voto dell’aula di Montecitorio sul caso Craxi sono da noi interamente condivisi. La nostra forza politica chiede l’immediato scioglimento delle Camere e nuove elezioni proprio per consentire alla Giustizia di procedere nel suo corso senza intollerabili franchigie e pretestuosi ostacoli».

Maurizio Gasparri, oggi ministro delle telecomunicazioni, andò più in là ancora: «Per noi Di Pietro è un mito: è mejo de Mussolini». Francesco Storace, oggi presidente del Lazio, arrivò a dire che la candidatura del suo avversario di collegio, genero di Zio Giulio, era «indecente» e davanti alla indignazione del malcapitato rise: «Nessuno potrebbe mai accusare me di aver baciato Totò Riina». Quanto a Ignazio La Russa, salutò le dimissioni dalla magistratura del «mitico Tonino», osannato alla festa di An di Rieti quando pareva stesse da quella parte là e godeva del 72% di popolarità, con squilli di tromba: «Calcoli politici di Di Pietro? Mai. Chi lo pensa è in malafede. Starei per dire che è un farabutto».

Relatore del disegno di legge che abolì l’immunità fu il democristiano oggi vicino al Polo Carlo Casini che spiegò: «Il principio del princeps legibus solutus (colui che fa le leggi e non è obbligato a rispettarle) è medievale e superato. Se vi è istanza di eguaglianza, quindi, essa deve riguardare in primo luogo gli autori della legge». Anzi, la riforma gli pareva perfino moscia per quella idea di mantenere una riserva sulle intercettazioni: «Elimina l'efficacia dell’atto compiuto a sorpresa».

Gli amici di partito tirarono diritto: la decima legislatura chiusa nel 1992 aveva visto respingere 101 richieste di autorizzazioni su 174, la pubblica opinione era invelenita e tutti i sondaggi erano dalla parte dei giudici. Voti a favore 525, un astenuto e 5 no, tra i quali quello di Vittorio Sgarbi. Il più deciso nell’opporsi. Uno dei pochissimi a poter rinfacciare oggi: «Io l’avevo detto».


Gli altri, no. Enrico Ferri, allora Psdi e oggi forzista, applaudì la «svolta storica». Pier Ferdinando Casini spiegò serenamente che era stata fatta la scelta giusta e proseguì nel corteggiamento di «Tonino», di cui aveva già arruolato nel Ccd il cognato, sperando di tirarne fuori la vecchia anima dc del babbo: «Caro Di Pietro, i tuoi articoli (...) rivelano passione civile e senso dell’opinione pubblica e mi inducono a darti un caloroso e rispettoso benvenuto». Per non dire della Lega. «I democristiani sono tutti dei porci. Sono anni che ci battiamo per l’abolizione dell’immunità», ringhiò Umberto Bossi dopo il voto su Craxi. «Avrei voluto gridargli: Bettino, dov’è finita la fontana sparita a Milano? E invece mi sono accorto che la maggior parte dei deputati pendeva ancora dalle sue labbra!», vomitò indignato l’attuale ministro della Giustizia Roberto Castelli. «I fatti dimostrano che l'immunità parlamentare è quello scudo medioevale dietro il quale la nomenklatura tutta si difende e si spalleggia«, disse schifato Giammarco Mancini». Una falange compatta. Anzi, spiegò Roberto Maroni, la Lega considerava indecente mantenere l’autorizzazione per l’arresto e le intercettazioni: «Noi siamo per l’abolizione totale dell’immunità».

E Silvio Berlusconi? I «giustizialisti», tra quanti stanno ora con lui, si potevano contare a decine e decine. Lui no, non disse niente. Come la pensasse, però, si può desumere da un’intervista al Messaggero dell’8 dicembre ’94, un anno e mezzo dopo «la giornata più nera della democrazia» e ben dopo l’incriminazione di Andreotti, dopo le manette a Carra, dopo il processo Enimont, dopo la fuga di Craxi in Tunisia, dopo i suicidi di Amorese, di Moroni, di Cagliari, di Gardini e perfino dopo l’apertura dell’inchiesta su Di Pietro e le sue dimissioni dalla magistratura: «La sua discesa in campo potrebbe essere una buona cosa. La sua ansia moralizzatrice è patrimonio di tutti e potrebbe essere utile al Paese». Di più: «I miei giornali, le mie tv, il mio gruppo sono sempre stati in prima fila nel sostenere Mani Pulite». Giudizio condiviso poche settimane prima, udite udite, perfino da Cesare Previti. Danni da Tangentopoli? «Tutti gli sconvolgimenti incidono sull’economia, quindi anche Tangentopoli avrà avuto la sua parte. Ma non parlerei di danni». Anzi: «Se veramente è finita l’Italia della tangente, il contraccolpo sarà positivo».

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