Da La Repubblica del 13/05/2003

La pistola fumante che l'America non trova

di Vittorio Zucconi

Lanciata contro la certezza di una realtà orrenda come la dittatura di Saddam, ma giustificata dall'ipotesi che l'abbattimento di quel regime avrebbe rivelato arsenali atroci e sottratto ossigeno alla Jihad del terrore, la guerra e l’occupazione dell’iraq si misurano oggi con una risposta amara e con un dubbio grave: il terrorismo, che non ha mai avuto bisogno d’armi di distruzione di ‘massa per compiere le sue stragi come provarono gli assassini dell’11 settembre, riesplode in Cecenia e in Arabia Saudita contro un quartiere abitato da occidentali, mentre l’arsenale descritto a colori vividi dalla “narrativa” prebellica della Casa Bianca non ha ancora prodotto una sola fialetta di veleni in due mesi di ricerca. Pagano infatti gli amministratori e gli ispettori americani, richiamati bruscamente a casa da Bush dopo un mese d’insuccessi a Bagdad e cresce il legittimo sospetto che quel casus belli sia stato un’arma di manipolazione di massa. Torniamo al mese di febbraio, alla “laundrylist” , l’elenco della biancheria sporca di Saddam che il segretario di Stato Colin Powell presentò al Consiglio di sicurezza. Powell ci descrisse allora, con cartoons, audio cassette e foto satellitari, un arsenale agghiacciante e garantito. Rileggiamolo: 500 tonnellate di gas nervini, 25mila litri d’antrace, 38mila litri di botulino, 29.984 munizioni e ogive di vario tipo per lanciarli, “dozzine” di missili Scud proibiti, centrifughe per l’arricchimento militare dell’uranio, 18 laboratori mobili per la produzione di armi biologiche, flotte di aerei senza pilota per spargerle. A 60 giorni dall’inizio della guerra, niente di tutto questo è stato trovato o usato. Niente.
I primi reparti speciali d’investigatori, la 75esima taskforce, stanno rientrando a mani vuote negli Usa insieme agli amministratori licenziati dopo appena un mese di governo.
Con il Paese ormai sotto pieno controllo degli angloamericani, sono state finora rilevate solo tracce di radioattività eccessiva in una base e catturato un rimorchio che potrebbe esser stato un laboratorio su ruote. Ieri, dopo giorni di trattative, s’è consegnata la dottoressa Rihab Taha,la ”dottoressa germe”. La speranza è che almeno lei, la quindicesima preda catturata nel mazzo dei 55 grandi ricercati, sia in grado di confermare che una parte almeno di quella “lista della lavandaia” non fosse fiction.
Dobbiamo seriamente sperare che la dottoressa, e gli altri gerarchi, consegnino a Bush se non proprio la mitica “pistola fumante”, almeno qualche cartuccia e per una ragione fondamentale che non riguarda ormai più la “legittimità” d’una guerra già combattuta e finita con la deposizione d’un regime di canaglie e di gangster. La ragione che deve farci sperare sta in una parola chiave per il futuro dei rapporti internazionali e del ruolo che l’America esercita: credibilità. Per compiere il suo gesto di rottura contro l’Onu e per invadere unilateralmente una nazione spregevole ma sovrana, l’America ci aveva chiesto di crederle sulla parola, d’accettare cioè la dottrina della prevenzione. Una tesi controversa, ideologica, ma fondata su una domanda reale: nell’epoca dell’atomo, dei virus manipolati, delle bombe sporche e dei gas, ha senso attendere che la rivoltella spari o non è più saggio strapparla dalle mani dei potenziali assassini prima di un altro 11 settembre, anche a costo di violare il galateo ammuffito dell’Onu e le buone maniere da salotto diplomatico? La “dottrina della guerra alle intenzioni” era dunque costruita su una premessa, che quella pistola fosse davvero trale mani del dittatore iracheno.
Se questa arma non fosse esistita, se Saddam l’avesse posseduta ma davvero distrutta da anni come sospettavano i dileggiati ispettori di Blix o se stesse bluffando per far paura ai vicini e schiacciare le ernie interne già gasate in passato, la premessa centrale della guerra reggerebbe ancora? La domanda non è maliziosa né polemica. Fu Bush in persona a spiegare, la sera del 19 marzo 2003 alle 20.47 Washington time, che «la campagna per disarmare Saddam» era cominciata. Nient’altro. Credere o lasciare. E il 10 aprile, il suo portavoce Ari Fleischer rispose brusco, a chi gli chiedeva se le armi non convenzionali fossero ancora importanti: «That’s what this war is about». Questo, le armi, è il motivo per il quale facciamo questa guerra. Dunque Washington ha investito la propria credibiità, oltre che 70 miliardi di dollari, 350mila soldati e le quasi 200 vite americane spente finora, sulla certezza di quell’arsenale, del quale il resto, la deposizione del tiranno, la “strada verso la pace” in Palestina, la guerra al terrorismo sarebbero state conseguenze benefiche ma collaterali. Ha mentito sapendo di mentire? Ha trasformato ipotesi e teorie in certezze? Ha forzato la mano ai propri servizi d’intelligence perché raggiungessero conclusioni che i fatti non autorizzavano, come si giustificano oggi alla Cia? Ha creduto alle millanterie di fuorisciti che dicono sempre quello che i nuovi protettori vogliono sentirsi dire?
Se davvero non si trovassero mai quelle armi in Iraq sarebbe una pessima notizia. Solo i professionisti dell’antiamericanismo potrebbero compiacersi se il can-can fosse stato uno show per imbonire il pubblico. L’assenza di pistole fumanti significherebbe che le più solenni affermazioni fatte da quest’amministrazione per giustificare una guerra campale sono inventate o montate ad arte. Delle due l’una: o la Casa Bianca mente davanti all’America e al mondo sapendo dimentire o i servizi d’intelligence forniscono, o son costretti a fornire, informazioni fasulle a dirigenti che li usano come base delle loro decisioni belliche. Se la “lista della lavandaia” fornita da Powell in febbraio fosse stata una “pokazuka”, fumo negli occhi, diverrebbe ancor più difficile, per palestinesi e israeliani, credere agli impegni che Washington dovrà prendere per spingerli a viva forza sulla strada della pace. Sarà ancora più duro, per un pubblico europeo già molto ostile a questa presidenza e tracimato dai soliti recinti dell’antiamericanismo militante con bandiere rosse, prendere sul serio i
prossimi ammonimenti e le prossime “rivelazioni” che verranno da Washington, contro quegli altri «Stati canaglia” che oggi attirano le attenzioni del gruppetto d’egemonisti che spingono Bush a non fermarsi a Bagdad e picchiare ancora. La risposta dei falchi, come descritta da David Sanger sul New York Times, è che la questione della smoking gun è ormai divenuta “irrilevante” di fronte alla vittoria militare e comunque il mondo è un luogo migliore, ora che Saddam deve starsene rintanato (a proposito, dove?). Ma un mondo nel quale la potenza egemone non sia credibile non è un luogo migliore, anche senza più i Saddam e mentre il terrorismo continua a lavorare nell’ombra. «Ci vorrà tempo» sbuffa Bush, e purtroppo rifluta la collaborazione dell’Onu nelle ricerche, che aiuterebbe a dare (di nuovo) credibilità a eventuali ritrovamenti. Speriamo allora nella dottoressa dei germi, per guarirci dal sospetto che anche i buoni sappiano sfacciatamente mentirci tanto quanto i cattivi.

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