Da La Repubblica del 14/05/2003

La missione incompiuta

di Vittorio Zucconi

ERA soltanto una speranza, o piuttosto un'illusione, che la stangata militare a Saddam e la mai dimostrata ipotesi della sua alleanza con Osama bin Laden, avrebbero spinto in remissione il terrorismo targato Al Qaeda. Poi, davanti a un'America che vorrebbe dimenticare e a un presidente che da giorni era tutto concentrato nella fatica di vincere le prossime elezioni promettendo meno tasse, ecco le immagini di ieri che ritornano e diventano la realtà di oggi. Ed ecco le stesse parole commosse riesumate dal presidente come i corpi dei morti dalle macerie di Riad: "Piangiamo loro", "preghiamo", noi che siamo uomini di vera fede contro "coloro che hanno come sola religione l'odio".
E "promettiamo che li prenderemo e gli autori di questo attentato spregevole e vile conosceranno tutta la forza della giustizia americana". La guerra, quella vera, quella contro il terrorismo, continua. Tutto già visto, già sentito, già promesso. "Ritorno al futuro" dell'11 settembre, delle stragi nelle ambasciate americane in Africa, dell'assalto all'incrociatore Gole nel Golfo di Aden, di un'altra torre demolita a Riad sette anni or sono. La svolta sperata nella guerra vera, quella contro il terrorismo amorfo e micidiale nella quale, ha detto ieri il vice Dick Cheney "saremo impegnati per anni", non è avvenuta, nonostante il mazzetto delle 55 carte e i monumenti abbattuti. Proprio ieri, prima che arrivasse il doppio colpo della violenza irredentista nella Cecenia massacrata e nell'Arabia Saudita dalla quale vennero 15 dei 19 dirottatori delle Torri Gemelle - non dall'Iraq, non dall'Afghanistan come crede metà degli americani - Colin Powell stava volando verso Riad per spingere quella pace in Medio Oriente che era stata promessa dai teorici della guerra, come benefico "effetto collaterale".
Ma invece di folle plaudenti, già scarsine anche a Bagdad, di governi resi più accomodanti, di terroristi intimiditi, Powell è stato accolto da un governo Sharon che ha annunciato di voler rioccupare Gaza, dal ritorno dell'ayatollah sciita filo iraniano in Iraq, dal ribaltone di amministratori americani già licenziati e rimpiazzati a Bagdad dopo appena un mese perché, raccontano gli inviati americani "la città è ripiombata nell'anarchia", "la gente ha paura di uscire di casa", i saccheggi sono ripresi, gli incendi e gli spari punteggiano la notte, l'elettricità e acqua funzionano a singhiozzo". E lo sfondo televisivo alla sua sosta saudita, non sono principi gentili e ospitali della famiglia regnante, ma è il più importante
compound di residenti stranieri nella capitale saudita, dove vivono consiglieri militari americani, tecnici della Boeing, esperti di intelligence, sbriciolato.
Nessuno, neppure Bush, neppure il suo vice Cheney che ieri ha consegnato un premio al ministro Rumsfeld per congratularsì l'uno con l'altro dei successi in guerra, aveva mai promesso "pace nel nostro tempo". La Casa Bianca, realisticamente e saggiamente, aveva sempre avvertito che questa guerra contro gli spettri sarebbe stata lunga e avrebbe conosciuto vittorie come sconfitte.
Ma la promessa implicita dell'invasione e dell'occupazione dell'Iraq era il prosciugamento dell'acque torbide nelle quali nuotano i pesci del terrorismo e la speranza di potersi dedicare ad altro. E infatti, dal discorso sul ponte della portaerei Lincoln in costume da pilota, Bush aveva decisamente spostato la barra oltre l'Iraq, verso quella crisi economica che ha, in due anni di riduzioni fiscali promesse come toccasana, divorato un milione e duecentomila posti di lavoro negli Usa.
"Dimenticare Bagdad" era divenuta la parola d'ordine rispettata dal governo e accettata dai media, stanchi.
Mentre Bush aveva cominciato a volare attraverso l'America per spingere il nuovo "pacchetto" fiscale, i suoi strateghi avevano deciso di fare proprio quello che Osama bin Laden aveva sempre chiesto, ritirare le truppe americane dalle infide basi saudite, portarle via dalla terra santa dell'Islam e trasferirle nell'Iraq occupato, che era uno degli obbiettivi non dichiarati dell'invasione. Il ritiro sarebbe dovuto cominciare il 29 aprile prossimo, ma i terroristi hanno giocato d'anticipo, provocatoriamente, deliberatamente, sfacciatamente, perché da giorni ormai lo Fbi aveva avvertito che "qualche cosa di grosso" stava bollendo a Riad e la polizia saudita aveva scoperto un deposito di alto esplosivo Semtexe C4, in un edificio a 500 metri dal quartiere attaccato e aveva identificato 19 terroristi, dei quali almeno nove si sono suicidati nell'assalto. Ma ora il presidente, il suo vice, Powell, sono costretti a riprendere un filo di sangue che speravano di aver fatto dimenticare, almeno per qualche mese, al pubblico.
"Questa guerra finirà soltanto quando avremo distrutto i terroristi" ha detto a denti stretti ieri Cheney, ma è chiaro anche, come dice uno dei massimi esperti americani della regione, l'ex ambasciatore Marc Ginsberg, che "Al Qaeda è riuscita a ricostruire una rete operativa almeno nel Golfo Arabico". Questa potrebbe essere la sola notizia vagamente confortante, nella carneficina di Riad, il fatto che la squadra di terroristi suicidi (la parola giapponese "kamikaze" sembra troppo onorevole per questa gente) abbia colpito nel punto più debole e vulnerabile, in quell'Arabia Saudita dove le complicità religiose e le simpatie ideologiche tra gli estremisti wahabiti sono più radicate. "Se avessero avuto la possibilità - spiega l'ambasciatore Ginsberg - avrebbe colpito un bersaglio più hard, più spettacolare di questo".
Possiamo sperarlo, ma non lo sappiamo, perché il cuore e le menti della rete rimangono intatti e introvabili, come introvabile è Saddam Hussein. Ma il massacro di Riad che per almeno un giorno ha dirottato il convoglio trionfale di Bush verso la rielezione nel 2004, ha dimostrato che il grande cartello steso alle spalle del presidente sulla Lincoln per il suo discorso della vittoria, Mission Accomplished, missione compiuta, esprimeva soltanto una speranza, non un risultato e i denti del terrorismo globale continueranno a mordere le caviglie di Bush nella sua corsa alla rielezione. Nella dinamica appiattita e superficiale della politica made for tv, una strage oggi pesa più di un trionfo militare ieri.

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