Da La Repubblica del 14/05/2003

La fabbrica del terrore

di Magdi Allam

ERANO nove giovani borghesi. Tutti sauditi. Di confessione sciita nella sua versione puritana wahabita. Età media sulla trentina. Alcuni sposati con figli piccoli. Possedevano un’attività, una casa, un’auto, un cellulare, un computer. Avevano un titolo di studio superiore. Un paio avevano studiato nelle università americane. Un inglese impeccabile. Parlavano il linguaggio della globalizzazione. Ma non ne condividevano il sistema di valori. Soffrivano di un male esistenziale diffuso e dirompente tra i giovani musulmani: la crisi d’identità. Negli ultimi tempi frequentavano abitualmente la moschea. Erano incantati dai sermoni degli ulema, i teologi islamici, che predicano la Jihad, la Guerra santa, e inculcano l’amore per la fede nella shahada, il martirio nel nome di Allah.
Quando lunedì notte si sono fatti esplodere a bordo di tre autobomba, erano pienamente convinti. Il loro “martirio” è stato una scelta. Hanno ringraziato il dirigente della cellula di Al Qaeda per averli selezionati. Gli altri aspiranti “martiri”, si tratta di centinaia, dovranno aspettare il loro turno per poter accedere al Paradiso islamico.
L’Arabia Saudita si conferma la vera roccaforte dei militanti di Osama Bin Laden. Il più pericoloso vulcano in eruzione del radicalismo islamico in grado di destabilizzare l’intero Medio Oriente. Un’incredibile fabbrica di aspiranti kamikaze che potrebbero seminare la morte ai quattro angoli del pianeta. Qui Bin Laden gioca in casa. Quindici dei diciannove terroristi suicidi che trasformarono tre aerei in bombe umane per scagliarli contro le Torri gemelle e il Pentagono, erano sauditi. Tre giorni fa le autorità saudite avevano annunciato un elenco di altri diciannove terroristi di Al Qaeda. Alcuni di loro avevano combattuto in Afghanistan. A fianco di Bin Laden nella battaglia cruciale di Tora Bora nel dicembre del 2001. Quando gli americani avrebbero potuto ucciderlo e ritennero di esserci riusciti. Si sarebbe probabilmente chiuso un capitolo nero del terrorismo contemporaneo. I nove che si sono immolati come bombe umane a Riad confermano che la disponibilità di “martiri” sauditi è notevole. Dice Abdel Rahman Mohammad Allahem, editorialista del quotidiano saudita Al Watan: «Sono degli attentati ideologici. I suoi autori non hanno remore a sacrificare la propria vita. Ecco perché è difficile prenderli».
Come l'11 settembre. Un’impressionante concentrazione di kamikaze islamici per infliggere il più alto numero possibile di vittime. L’attentato di Riad cela un’inquietante novità e tradisce un obiettivò più che ambizioso: Osama Bin Laden, ritornato a suo modo in grande stile sullo scacchiere mediorientale, è convinto di poter scalzare dal potere la monarchia saudita e mettere le mani sulla cassaforte del mondo. Grazie alle maggiori riserve mondiali di greggio, chi detiene il potere a Riad è in grado di influenzare politicamente il Mondo islamico e condizionare l’economia mondiale. Questo è l’obiettivo strategico di Bin Laden: riesumare la Umma, la Nazione dell’islam, ergersi a nuovo califfo, il vicario del profeta Mohammad (Maometto). La più sacra delle terre dell’Islam si conferma il ventre molle del Golfo, la polveriera più a rischio del Mondo arabo e musulmano. E’ qui che si temeva dovesse abbattersi l’onda lunga della guerra in Iraq. E così è stato.
Il regno saudita sta pagando i gravi errori di una lunga e annosa politica religiosa e ideologica all’insegna dell’azzardo e dell’ambiguità. Sin dagli anni Sessanta ha sostenuto e finanziato il movimento integralista e radicale ovunque nel mondo, nell’ambito di una guerra totale e viscerale al comunismo, al socialismo, al panarabismo e al laicismo. Il risultato è che l’Arabia Saudita si riscopre oggi un nido di vipere di matrice islamica. Ugualmente la monarchia sconta le conseguenze di una politica economica e sociale miope e dissennata, che ha gradualmente ridotto considerevolmente il tenore di vita dei sauditi mentre contemporaneamente ha favorito la crescita incontrollata della popolazione. Ed è così che oggi l’Arabia Saudita, pur essendo il primo produttore e il paese con le maggiori riserve di greggio al mondo, è allo stesso tempo il paese con il più basso reddito pro-capite nella regione del Golfo. Per la prima volta dopo il boom petrolifero l’Arabia Saudita vede nascere al suo interno una classe di non abbienti. Per la prima volta i settimanali d’inchiesta raccontano le storie di donne saudite povere che sono costrette a lavorare come domestiche nelle abitazioni dei concittadini ricchi. Suscita ugualmente scandalo il fatto che, sempre per la prima volta, delle donne saudite accettano di sposarsi, per necessità, con degli immigrati benestanti originari di paesi, come il Pakistan, che sono assai poveri.
E’ in questo contesto non proprio brillante e in continua ebollizione che il messaggio di Bin Laden riesce a far presa all’interno di un’ampia base popolare sauditi e a convincere molti giovani a candidarsi alla guida del movimento di rivolta islamica. Dal canto suo la monarchia sta facendo del suo meglio per barcamenarsi tra la necessità di non divorziare dal tradizionale alleato americano e l’imperativo di tenere sotto controllo il fronte interno. Ma è un tentativo arduo e che presenta più di una incognita. Il recente accordo con Bush per l’evacuazione delle basi americane sul territorio saudita, è stata percepita da Bin Laden come un segno di debolezza sia della famiglia reale sia degli americani. Si sa che il terrorismo colpisce con più forza i bersagli considerati più deboli. E così è stato.
Bin Laden ha lanciato la sua sfida totale a re Fahd colpendo duramente gli americani. E’ consapevole che l’antiamericanismo è il pane quotidiano dei sauditi. Difficilmente un attentato contro gli americani otterrà la disapprovazione delle masse. Così come si proponeva in Somalia nel 1993, a New York e Washington nel 2001, l’attentato di Riad mira in definitiva a costringere gli americani a ritirarsi sia dall’Arabia Saudita sia dall’insieme della regione del Golfo. La concomitanza con il grave attentato in Cecenia e con l’offensiva dei kamikaze palestinesi contro lsraele, segnala l’esistenza di un raccordo sul piano strategico. Forse anche logistico. Certamente conferma la realtà della globalizzazione del terrorismo di matrice islamica. Che è ancora forte nonostante la sconfitta di Saddam. E’ vero che le varie sigle del terrorismo islamico, Hamas, Jihad islamica, Hezbollah e la stessa Al Qaeda, avevano scommesso sull’ex tiranno iracheno. La sua sconfitta è in qualche modo anche unà loro sconfitta. Ma in Arabia Saudita Bin Laden gioca in casa. E ha deciso di puntare tutte le sue carte.

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