Da Corriere della Sera del 22/05/2003

Bombe mafiose del ’93, l’accusa del pm Gabriele Chelazzi sull’inchiesta fiorentina per scoprire i mandanti occulti

Una lettera prima di morire: lasciato solo dalla Procura

di Giovanni Bianconi

ROMA - L’ultimo atto dell’inchiesta sulle stragi di mafia del 1993 condotta dal pm Gabriele Chelazzi è stata una lettera, indirizzata al procuratore di Firenze. Una missiva che il magistrato della Direzione nazionale antimafia ha scritto poche ore prima di morire, colpito da un infarto nella notte tra il 16 e il 17 aprile scorsi, e non ha fatto in tempo a spedire. Chi s’è occupato di mettere ordine tra le sue carte l’ha trovata sul tavolo e l’ha fatta recapitare al destinatario, il dottor Ubaldo Nannucci, capo della Procura fiorentina. A lui Chelazzi aveva deciso di rivelare la propria amarezza per la sensazione di solitudine che provava lavorando a quell’indagine delicata e complicata. Il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna aveva «applicato» Chelazzi all’ufficio di Firenze, titolare dell’indagine sui «mandanti a volto coperto» delle bombe scoppiate a Firenze, Milano e Roma tra la primavera e l’estate del 1993: dieci morti e decine di feriti per i quali un gruppo di mafiosi, da Riina in giù, è stato condannato all’ergastolo. Secondo la giustizia italiana sono gli esecutori materiali di quelle stragi, ma il lavoro degli inquirenti continua nel tentativo di smascherare eventuali ispiratori di quegli attentati «esterni» a Cosa Nostra. A tirare le fila dell’inchiesta era proprio Chelazzi, che prima di morire ha messo nero su bianco il disappunto per quella che riteneva un’insufficiente attenzione da parte della Procura di Firenze a ciò che stava emergendo all’indagine, un supporto inadeguato rispetto a quello che secondo lui meritavano gli accertamenti in corso.
I termini di legge per l’inchiesta stanno per scadere (bisognerà chiudere entro i primi di giugno), e nel registro degli indagati compare solo il nome dell’ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, già condannato in primo grado a otto anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. Ora su di lui pende l’ipotesi più grave di concorso in strage. Alcuni pentiti, tra i quali Giovanni Brusca, hanno infatti rivelato i contatti dell’ex parlamentare con Cosa Nostra - in particolare la famiglia Graviano di Brancaccio - proprio nel 1993, quando la mafia tentò di far ammorbidire le leggi contro i boss varate dopo le stragi del 1992. Le bombe dell’anno successivo sono state più volte definite «bombe del dialogo», per indurre la controparte a trattare con Cosa Nostra e rivedere certe norme, a cominciare dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che sancisce il «carcere duro» per gli uomini delle cosche.
Inzerillo è stato interrogato nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto di Firenze Fleury e dai pm Nicolosi e Crimi, i titolari dell’inchiesta divenuti «eredi» di Chelazzi. In alcune interviste il super-procuratore antimafia Vigna ha anticipato l’idea di «una talpa..., un canale di fuoriuscita di notizie riservate» dallo Stato verso la mafia, nel periodo in cui si decise di prorogare il «41 bis». Di questo si occupava Chelazzi, che ha compiuto accertamenti al ministero della Giustizia spulciando carte e ascoltando testimoni. E si occupava dell’eventuale «trattativa» tra rappresentanti delle istituzioni e rappresentati di Cosa Nostra in quel periodo, sulla falsariga di ciò che si è ipotizzato per l’anno precedente, a cavallo delle stragi del ’92. Allora, hanno raccontato alcuni collaboratori giustizia, Totò Riina redasse un «papello» (pezzo di carta) con le proprie richieste per interrompere gli attentati; nel ’93, con Riina in carcere, ci avrebbe provato qualcun altro.
Nell’ipotesi dell’accusa l’ex senatore Inzerillo sarebbe coinvolto in questa operazione di dialogo a distanza tra mafia e Stato. Per verificare questa e altre possibilità Chelazzi ha interrogato diverse persone, e aveva in programma di interrogarne ancora. Pochi giorni prima di morire, insieme al pm Nicolosi, ascoltò come testimone il prefetto Mario Mori, già comandante del Ros dei carabinieri e oggi direttore del Sisde. Gli ha chiesto dei suoi rapporti e dei suoi ripetuti incontri nel 1993 con il giornalista Giovanni Pepi, condirettore del Giornale di Sicilia . Pepi fu indicato da Riina, durante una pubblica dichiarazione fatta dieci anni fa nel corso di un processo, come l’unico giornalista al quale avrebbe potuto concedere un’intervista. Niente di strano secondo Pepi che già allora chiarì il senso della frase del boss. Ma, come ha rivelato ancora Vigna nelle interviste, Chelazzi aveva intenzione di approfondire il senso di quella frase di Riina. Da Pepi non ha fatto in tempo ad andare, mentre da Mori il magistrato dell’Antimafia ha avuto la spiegazione di un normale rapporto d’amicizia. «Conosco Pepi da almeno dieci anni - ha detto il direttore del Sisde -, mi è stato presentato come persona dabbene, abbiamo avuto e abbiamo normali frequentazioni tra amici. In ogni caso non ho mai condotto "trattative" con chicchessia». Pepi si mostra stupito di essere stato chiamato in causa, spiega che tutto si poteva verificare dieci anni fa ed è a disposizione per chiarire qualunque cosa ancora oggi. Anche la vicenda raccontata dal pentito Angelo Siino, che in un verbale ha detto di averlo visto «intrattenersi cordialmente» con il «geometra di Cosa Nostra» Giuseppe Lipari - l’ex-insospettabile che gestiva i beni di Riina e Provenzano, il quale ha tentato di collaborare con la giustizia ma è stato «respinto» dalla procura di Palermo - al matrimonio della figlia di Lipari. Tutto risale a quando Lipari non era ancora stato scoperto come mafioso e - ricorda oggi Pepi - «sua figlia era una collaboratrice del Giornale di Sicilia . Sono andato al suo matrimonio, salutai lei, ma non ho mai conosciuto suo padre».
Visti i tempi stretti per concludere l’indagine, è possibile che Chelazzi volesse chiedere uno «stralcio» per chiudere l’inchiesta su Inzerillo e proseguire gli accertamenti «contro ignoti». Perché c’era da appurare, ad esempio, il movente della fallita strage dell’ottobre ’93 allo stadio Olimpico di Roma rivelata da alcuni pentiti. Un attentato nel quale dovevano morire molti carabinieri, si disse, e l’ipotesi è che fosse la risposta ordinata dall’ala dura di Cosa Nostra per il fallimento della presunta «trattativa» con lo Stato. Supposizioni e teorie suffragate da qualche indizio ma difficili da verificare; indagini delicate che potevano apparire fumose a chi non le «viveva» dall’interno. Forse questo temeva Gabriele Chelazzi, quando decise di scrivere quella lettera nella quale traspaiono il disappunto e la solitudine di un magistrato che credeva nel suo lavoro, morto prima di poterlo concludere.

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