Da La Repubblica del 01/06/2003

Il primo viaggio dalla guerra all'Iraq del presidente Usa: ciascuno faccia la sua parte contro i terroristi

Bush mette in guardia l'Europa "Nessuno si metta contro gli Usa"

di Vittorio Zucconi

SAN PIETROBURGO — Non è venuto per ascoltare, George Bush, ma per dettare. Non è in Europa per capire, ma per spiegare e per portare ad alleati vecchi e nuovi, belligeranti o non belligeranti, le nuove tavole della legge secondo Washington. «Sono qui per affermare le intenzioni del mio Paese» ha detto a Cracovia, nell’unico discorso ufficiale che pronuncerà in questo frenetico sprint attraverso sei nazioni diverse continenti in sei giorni e le intenzioni sono: «Mantenere l’impegno per una forte Alleanza atlantica» a condizione che «tutte le nostre nazioni si uniscano nella difesa della libertà» e soprattutto «facciano la loro parte nella guerra al térrore globale. Questo non è il momento per fomentare dissensi e divisioni. Non esiste un conflitto tra Europa e Stati Uniti». A lui la guida, a noi la nostra parte. E l’Onu è un totem caduto. Neppure un cenno, a quel simulacro svuotato di legittimità internazionale, ma gesti di compiacenza distribuita individualmente ai favoriti come l’agognato e finalmente concesso invito a Berlusconi per una vacanza nel ranch di famiglia texano in luglio, a Crawford, riservato ai fedeli.
Così dunque parlò Gorge Bush, perché lo ascoltassero i polacchi, già pienamente convinti ed eletti della "Nuova Europa" opposta alla “Vecchia” franco-tedesca, infatti premiati con la prima sosta del suo sprint europeo e con un ricco contratto di fornitura di caccia bombardieri F16 che daranno lavoro alle aziende polacche e soprattutto soldi ai licenziatari americani. Ma è venuto soprattutto per fare il previsto sgarbo al solo capo di governo europeo che “non ci volle stare” ed è sempre più solo nelle sue obiezioni alla visione americo-centrica del mondo, che viene a indicarci le sue «intenzioni» e deve glissare su quell’arsenale di armi di distruzione di massa che nel discorso di Bush all’Europa è già stato declassato a armi «che il tiranno in Iraq cercava di procurarsi», dunque non possedeva. Pace fatta quindi, con un’Europa che non ha la forza, le idee, le proposte per costruire un’alternativa all’imperio americano. Una pacca affettuosa al ginocchio di Putin, ieri sera nella festa di San Pietroburgo, un gesto per Schroeder, che Bush è andato a salutare prima della cena collettiva e, nelle prossime ore, anche l’andata a Canossa di Chirac, rimasto solo, in una posizione insostenibile, di dissenso.
Ma l’Iraq sembra già storia antica, per un uomo che va di fretta, che si sta muovendo, nell’azione politica come nei trasferimenti da una città all’altra di questa corsa pazza
— Cracovia, San Pietroburgo, Ginevra, Evian, Sharm El Sheikh, Aqaba, Doha in Qatar — come una biglia in un flipper e sembra non voler dare a nessuno dei suoi interlocutori, polacchi, russi, nazioni del G8, leader arabi, israeliani, palestinesi, il tempo per fare domande, obiettare. Bush è il vincitore che al massimo può fare concessioni di magnanimità oratoria e storica, ammettere che «l’America deve la propria eredità morale di democrazia e di tolleranza all’Europa» e non menzionare più un altra di quella frasi a effetto, come «gli Stati canaglia» che poi è stato costretto ad abbandonare. Così, l’imbarazzante «coalition of the willing», creata per la guerra all’Iraq, ha ritrovato una più alta dignità retorica nella frase «coalition of freedom», la «coalizione della libertà».
Proprio la stessa agenda, più delle parole, racconta la verità di questa prima ripresa di contatti fra gli Stati Uniti e l’Europa. Bush ha scelto di cominciare la corsa da un luogo che nessuno può discutere, come pozzo senza fondo del «lavoro del male», ha detto lui stesso, Auschwitz e il satellite Birkenau, dove nulla può appannare la nitidezza assoluta del Male. Già un presidente americano, Gerald Ford nel 1975, c’era stato, poi più nessuno e se Bush ha voluto tornarvi, posare una rosa con la moglie Laura sul carrello usato per trasportare i cadaveri dei giusti verso i forni crematori, piangere una lacrima che si è asciugato in diretta con il fazzoletto bianco da taschino, lo ha fatto perché fra tre giorni si prepara a chiedere ad Ariel Sharon, al leader della democrazia nata da questi forni, il sacrificio di un atto di fede nella ipotesi di pace. Ha qualche speranza, perché «non si può chiedere a popoli di vivere nell’umiliazione e nel terrore per sempre».
Tutto il resto del suo viaggio, dopo questa lunga pausa ad Auschwitz e Birkenau, sembra una dimostrazione di stizza, più che di riconciliazione. Con Putin, a San Pietroburgo addobbata perla festa del tricentenario poche ore, 20 minuti al balletto direttamente dall’aeroporto di Pulkovo, una cena, un altro incontro questa mattina poi via verso Ginevra, il balzo in elicottero a Evian e un incontro del GB che lo costringerà a dare la mano a Chirac, ma con
le dita dell’altra mano incrociate dietro la schiena. A lui, a Chirac, alla Francia, bersaglio di insulti, dileggi, boicottaggi nell’America “tradita”, Bush ha riservato la frase più acida del discorso pronunciato a Cracovia: «Tra noi abbiamo visto unità e proposito comuni, ma anche dibattiti, alcuni salutari, altri capaci soltanto di creare divisioni».
E prima che la stretta di mano si scaldi troppo, dopo appena 24 ore tra le Alpi, la sera di domani, piantando in asso quegli altri Sette europei, giapponesi e canadesi ancora aggrappati al relitto del sempre più anacronistico e svuotato G8, Bush si alzerà a metà del pranzo, come l’ospite che ha cose più serie da fare. Decollerà verso l’Egitto, il Mar Rosso, Sharm El Sheikh, per il pre-vertice con gli arabi prima dell’incontro con Abu Mazen e Sharon. Niente avrebbe -impédito un calendario più calmo e riflessivo. Ma Bush, che ha preso dal padre, maestro di speed golf la versione del golf dove non contano i colpi fatti, ma la velocità nel finire il percorso, vuole dare a tutti il senso che il sovrano è ancora corrucciato con noi, per non avere assimilato fino in fondo il verbo della guerra preventiva, per non avere capito la lezione dell’11 settembre, come l’ha ripetuta lui, ieri (o ieri l’altro? O era domani?) a Cracovia: «La lezione dell’il settembre, come quella di Pearl Harbour è la stessa: l’aggressione e le intenzioni aggressive non devono essere ignorate appeased, né con loro si deve scéndere a patti, ci si deve opporre rapidamente e con decisione».
E’ la teoria della guerra preventiva, della guerra alle intenzioni, che non si può dibattere, ma solo combattere, sulla “parola del ré”, come è avvenuto in Iraq. Come poi possa Gorge Bush dire dagli spalti del Castello di Wavel, la magnifica rocca di Cracovia, che «da qui partì un giovane sacerdote destinato a divenire una delle massime autorità morali del nostro tempo, papa Woytjla» quando questo stesso Papa si è opposto alla dottrina della guerra preventiva è un mistero retorico che si potrebbe chiedere a Bush di sciogliere. Se non fosse già ripartito.

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