Da La Repubblica del 04/06/2003

La marcia trionfale dell'euro un'occasione per l'Unione

di Giorgio Ruffolo

“COME Siamo caduti in alto", avrà pensato in questi giorni l'arruffato presidente della Banca centrale europea Duisenberg. In effetti, l'ascesa trionfale dell' euro è motivo molto più di preoccupazione, per un'Europa già alquanto malmostosa, che di compiacimento. Bisogna dire che di questa ascesa lui non porta né merito né colpa. La partita si gioca tutta di là dall'Atlantico. Si tratta infatti molto più di un deprezzamento del dollaro che di una rivalutazione dell'euro. Tra le cause di questa ormai prolungata nuova fase di svalutazione (15 mesi con un calo di ben il 34%) non è facile orientarsi. Proviamo a raccontare una storia in breve.
Negli anni Novanta l'economia americana è stata coinvolta in una delle fasi più esaltanti della sua crescita. La quale era dovuta, non a una scommessa di politica economica azzeccata, come il periodo reaganiano degli anni Ottanta (durò 56 mesi, con un apprezzamento del dollaro del 53%) ma alla forza endogena di una ondata di innovazioni, la famosa "nuova economia", che suscitò un boom di investimenti e di profitti. Sull'onda di quelli, i corsi azionari cominciarono a salire (il Nasdaq del 500% tra il 1995 e il 2000) e molti americani, ormai convinti di poter contare permanentemente sui loro guadagni di borsa, a consumare, molto al di là dei loro redditi normali. Il risparmio complessivo si ridusse fino ad azzerarsi. La domanda complessiva (consumi e investimenti) si avvitò in un circolo che sarebbe stato virtuoso se non fosse stato drogato. La politica macroeconomica, monetaria e fiscale, accompagnò benevolmente questo boom. Non ci si preoccupava del crescente disavanzo che quell'eccesso di consumi provocava nella bilancia dei pagamenti correnti, dal momento che il risparmio mondiale, giapponese ed europeo soprattutto, affluiva negli Stati Uniti, attratto da profitti che sembravano dovuti tutti alla brillantissima performance dell'economia reale; e quindi durevoli. Ciò comportava uno strano paradosso. Un disavanzo commerciale mostruoso (è arrivato oggi a poco meno del 5% del Pil) si accompagnava con un dollaro forte.
Alcuni tra i più entusiasti economisti americani, come MacKinnon e Cooper, ci spiegarono all'inizio del 2001 che ciò era più che naturale. Gli americani potevano permettersi di far crescere indefinitamente il loro disavanzo esterno perché il dollaro era la moneta di riserva mondiale. Chi lo riceveva lo conservava, o lo investiva: dove? Ma in America! Chi si lamentava di questo signoraggio doveva mettersi l'anima in pace. Il mondo aveva bisogno di una moneta mondiale. E quella era la moneta del paese economicamente più forte del mondo. L'economia americana era il motore dell'economia mondiale. Pertanto, concludevano, il dollaro sarebbe rimasto forte, comunque.
E qui si sbagliavano. A un certo punto, la "bolla speculativa" (l'eccesso del valore delle azioni rispetto al valore degli impianti) scoppiò, come scoppiano tutte le bolle speculative, prima o poi. In poco più di tre anni l'indice azionario Nasdaq è sceso del 70%: poco meno del famoso tonfo degli anni Trenta. È emersa una condizione di indebitamento delle famiglie (fino all'80% del Pil) e di sovrainvestimento delle imprese, e quindi di capacità produttiva inutilizzata (si calcola, per il 25% del totale) Le due cose hanno cominciato a influenzare negativamente, la prima i consumi, la seconda gli investimenti, rallentando la crescita e suscitando la minaccia di una recessione. È la minaccia più grave, per un Governo per tutto il resto trionfante (Bush padre ne sa qualche cosa) proprio mentre si avvicinano le elezioni presidenziali. Si capisce che il peggioramento delle aspettative influenzate da una catena di choc esogeni (la tragedia delle due Torri, le rivelazioni sui misfatti manageriali, la guerra irachena) getti un'ombra pesante sulle prospettive di una energica ripresa, costantemente annunciata e regolarmente rinviata. In tali condizioni, il deprezzamento del dollaro costituisce una occasione ideale per dare una bella frustata all'economia, riaggiustando il deficit esterno. Che importa se l'euro sale, magari fino a 1,30, 1,40 dollari? Saranno le economie europee a subire il colpo attraverso una riduzione della domanda esterna: pazienza. Prescindendo dalla maliziosa soddisfazione politica, gli americani hanno ragione di attribuire la colpa dell'anoressia europea non all'America, ma alla incapacità europea di promuovere la sua domanda interna. E poi, saranno gli stessi europei, terrorizzati dalla recessione, a intervenire a sostegno del dollaro. Dopo un certo tempo, tutto tornerà a posto. E intanto ci saranno state le elezioni.
È una storiella troppo semplice? Non c'è dubbio, però mi sembra convincente, in attesa di altre. Del resto, sono gli stessi americani a raccontarla, con la brutalità che da tempo contraddistingue il loro linguaggio.
E l'Unione Europea, adesso, povera donna? Si rassegnerà a subire l'implicito ricatto americano? Sembra proprio così, a meno che...
L'Europa avrebbe una risposta efficace e al tempo stesso non necessariamente conflittuale. Lasciando andare con benevola negligenza il cambio del dollaro, gli americani possono godere di un vantaggio a breve termine, ma rischiano grosso sul periodo più lungo. Rischiano che i mercati finanziari e le banche centrali degli altri paesi comincino a considerare l'euro come una seria alternativa al dollaro. Nel 1971, quando Nixon lanciò la sua famosa sfida, alternative al dollaro non ce n'erano. Oggi sì. Se dobbiamo credere a un recente studio di un ricercatore di Oxford, Niall Ferguson, le emissioni mondiali di obbligazioni in euro sono passate, nei quattro anni dalla sua nascita, dal 20 al 44% delle emissioni totali, avvicinandosi alla quota delle emissioni in dollari (48%). Le riserve in dollari delle banche centrali sono rimaste costanti, secondo il Fondo Monetario, attorno al 68 per cento. Ma più di un paese asiatico, quelli musulmani soprattutto, come l’Indonesia, come la Malaysia, come l'Arabia Saudita, ha cominciato a diversificare le sue riserve. Questa diversificazione, se continuasse, permetterebbe non di suscitare una devastante e alla lunga impossibile concorrenza tra due monete di riserva mondiali; ma una iniziativa tendente a ripristinare un certo ordine monetario, più stabile ed equilibrato.
Ma soprattutto, l'Europa potrebbe approfittare della forza di un euro che può diventare un elemento strutturale del paesaggio, per uscire finalmente da questa ridicola situazione di autoparalisi della sua politica macroeconomica: soprattutto di una politica fiscale impaniata nel "patto di stabilità". Sei anni fa – mi scuso per la parentesi personale – Andrea Manzella e il sottoscritto avanzarono, proprio su questo giornale, una proposta ispirata alle idee del piano Delors. Si trattava di dare vita e sangue al cosiddetto Fondo Europeo di Investimenti – una scatola vuota – attraverso il lancio di un grande programma di investimenti "comunitari" (si parlava allora soprattutto delle grandi reti di comunicazione, si potrebbero aggiungere oggi i progetti rispondenti agli obiettivi nel campo della ricerca e della formazione definiti con molta ambizione, ma senza strumenti operativi a Lisbona). Si
trattava inoltre di sottrarre l'ammontare di questi investimenti produttivi, e quindi generatori di reddito, alla scure del patto di stabilità (dovendo essere approvati in comune, non darebbero occasione ad interpretazioni troppo "creative"). E di finanziarli in parte rilevante attraverso un ricorso al mercato finanziario mondiale. La nuova forza dell'euro renderebbe oggi molto più credibile una impresa di questo genere.
Oggi, molte proposte analoghe stanno fiorendo. Temo però che esse dovranno affrontare la palude dell'impotenza politica dell'Unione. Per promuovere e gestire un programma del genere occorre un governo economico dell'Unione. E’ altamente incredibile, e terribilmente significativo, che di questa ovvia implicazione dell'Unione monetaria non si sia neppure parlato nella Convenzione. Non è un problema costituzionale? Ma via!

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