Da Corriere della Sera del 27/06/2003

Un grande archivio può «fare» la Storia

E’ la traccia del passato nel presente: usarlo può sembrar poco ma è un minimo irrinunciabile

di Aldo Grasso

Ci può essere qualità nei programmi televisivi? Si può quantificare la qualità dei programmi? Gli standard Iso (misuratori oggettivi di qualità) si possono applicare a un prodotto editoriale tanto sfuggente? Chi stabilisce se un programma è di qualità o meno? Le domande sono meno peregrine di quanto possano apparire. Tutti infatti invocano la qualità (e ha fatto benissimo Alberto Ronchey a ricordare che anche la natura del prodotto sancisce i compiti di un Servizio pubblico) ma non c’è cosa al mondo più difficile da definire. Qualcuno continua a confondere la qualità con un’attitudine pedagogizzante della tv, la Rai come buona maestra.

Qualcun altro, più laicamente, sostiene che la tv ha un linguaggio incompatibile con la cultura alta, che la cultura è una «tecnica avvolgente», che è finita la tv educativa, che la tanto deprecata trash-tv in realtà non scredita la tv perché è un modo utile e irreale di fruire la complessità del reale. Qualcun altro ancora ricorda che l’unica distinzione possibile, come nel cinema o in letteratura o a teatro, è fra programmi buoni e programmi cattivi. Se uno va da un ciabattino a chiedergli cosa sia una scarpa di qualità, quello, stupito dell’improvvida domanda, risponderà che è una scarpa fatta bene.

Come mai le cose si complicano se la medesima domanda viene rivolta a un televisivo? Come mai quando si tratta di linguaggi e di cultura la parola «qualità» si carica di stridente goffaggine? E come mai, infine, quando si scende a esempi concreti (programmi e autori) la nozione di qualità diventa così elastica e comprensiva che ad essa si aggrappano cani e porci, o autori che hanno avuto tutta una vita professionale per fare buoni programmi e si accorgono della qualità solo quando sono andati in pensione? Danno buoni consigli quando non possono più dare cattivi esempi.

In questo frangente la Rai ha un settore che può contribuire non poco alla sua riqualificazione, quello storico. L’uso delle immagini d’archivio come fonte per lo storico resta una questione delicata che solo recentemente ha trovato spazio nell’universo della ricerca storiografica: la natura non verbale o, perlomeno, non esclusivamente verbale della fonte, l’inquietante livello di veridicità delle immagini, la complessità dell’analisi dell’intenzionalità degli autori, lo statuto dell’immagine di repertorio, la sua subordinazione al contenuto verbale.

Il grande archivio Rai è un vasto deposito di sapere: la tv ha una funzione antropologica in quanto conserva e trasmette le abitudini, i valori, i modi di vita di una comunità ma svolge anche una funzione storica in quanto è la traccia del passato nel presente. Con i suoi programmi storici (tipo «La Grande Storia») la Rai può formare la memoria di una nazione e diventare un importante strumento di conoscenza. Ci sono infatti argomenti di vasta portata sociale che rischiano l’estinzione se non entrano nel circuito mediatico. E poco? In tv, quando si parla di qualità, bisogna chiedere poco, il minimo; ma con durezza, un minimo irrinunciabile.

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