Da Corriere della Sera del 15/07/2003

I fantasmi di Bush

di Gianni Riotta

Il presidente americano Jimmy Carter parlò nella sua vittoriosa campagna elettorale del 1976 di misery index, l'indice della miseria, che calcolava la somma del tasso di inflazione e del tasso di disoccupazione. Da allora, l'indice della miseria è stato un termometro dei risultati elettorali abbastanza preciso. Se supera quota 10, il presidente in carica è in difficoltà, l'economia va male e gli elettori gliela faranno pagare. Se resta sotto 10, la partita è aperta e l'inquilino della Casa Bianca è in vantaggio. Oggi siamo intorno al 7, quanto basta per tenere gli sfidanti democratici del presidente George W. Bush alle corde, ma non abbastanza per non dare i brividi freddi al consigliere capo del Partito repubblicano Karl Rove. Attorno alle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein che non si trovano, ai dossier della Cia sull'uranio del Niger che l'Iraq avrebbe negoziato ma che stanno risultando fasulli e al discorso sullo stato dell'Unione del presidente Bush, si gioca una partita delicata. Che ha solo fino a un certo punto a che fare con la guerriglia per le strade di Bagdad e la legittimità dell'invasione del 2003 e moltissimo a che fare con la corsa elettorale del 2004. Se i democratici, ridotti al lumicino dalla clamorosa sconfitta al voto parlamentare del 2002, riescono ad abbinare economia in panne e guerriglia in Iraq, hanno certamente qualcosa da dire.

Altrimenti sono spacciati. Se l'elettorato, inquieto per la disoccupazione che cresce, il deficit federale che si allarga grazie ai tagli fiscali e a una situazione economica mediocre, non vede progressi né in Afghanistan, né in Iraq, allora si crea un malcontento preoccupante per Bush.

I giornali, i commentatori e molti uomini politici europei sono impressionati dal balletto della propaganda. E' vero o no che l'ambasciatore Wilson aveva detto che il dossier del Niger era fasullo? Perché la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice e il ministro della Difesa Donald Rumsfeld non suonarono l'allarme? E il capo della Cia, George Tenet, fu troppo servile nel dare a Bush i dati di cui credeva avesse bisogno, o invece paga il fio come capro espiatorio? Il ceto medio e l' upper class , i ceti abbienti americani, veri padroni delle urne presidenziali, non sono finora sdegnati per le armi che appaiono e scompaiono. L'editorialista conservatore del New York Times , Bill Safire, ha pubblicato un’intervista impossibile con il suo vecchio capo alla Casa Bianca, il presidente Richard Nixon: gli elettori sono fieri che Bush abbia vinto due guerre in Afghanistan e Iraq per difenderli dopo le stragi dell'11 settembre 2001. Bush ha vinto nel 2002 puntando sulla sicurezza, mentre i democratici si sfiatavano sull'economia.

Ieri però in Iraq è morto un altro soldato e sono 32 dal primo di maggio, quando Bush ha dichiarato la guerra vinta. Vinta? Quest'inverno il ministro Rumsfeld e il suo vice Paul Wolfowitz spedirono in pensione anticipata il capo di stato maggiore dell'esercito generale Eric Shinseki, colpevole di avere detto che per pacificare l'Iraq ci sarebbero volute «svariate centinaia di migliaia di soldati». «Ne basteranno molto meno», giurarono. Adesso Rumsfeld riconosce che i 148.000 soldati Usa, i 13.000 alleati in campo e i 17.000 che arriveranno, potrebbero non bastare.

Ma se andranno in campo 300.000 uomini, con le rotazioni, l'intera forza Usa sarà assorbita dall'Iraq, a un costo di 4 miliardi e 400 milioni di euro al mese (spesa raddoppiata rispetto alle stime del Pentagono). «Non sarà un'estate pacifica - dice Rumsfeld -. Ci sparano addosso? Sì. E' un brutto momento? Puoi scommetterci. Altra gente morirà? Temo di sì». Al Senato, Rumsfeld ha detto che forse si dovranno arruolare nuovi volontari per far fronte alla guerra al terrorismo.

Ieri, 14 luglio, i ribelli del Baath hanno colpito i soldati americani per ricordare la data del golpe a Bagdad contro gli inglesi, nel 1958. Domani potrebbero ancora attaccare per celebrare, a loro modo, la presa di potere di Saddam Hussein nel 1979 e il 17 finire la settimana di raid - così teme il governatore Paul Bremer - in occasione del giorno sacro alla rivoluzione del partito Baath nel 1968. La guerriglia contro i militari della coalizione è certamente coordinata da comandanti a livello locale e forse, così ritengono gli esperti del Pentagono, anche a livello centrale. Saddam, dato per morto subito dopo la guerra, è adesso considerato vivo e, se non sarà preso, rischia di fungere da «convitato di pietra» della campagna elettorale. Il suo fantasma spaventa la popolazione e impedisce molti atteggiamenti amichevoli verso gli occupanti. Gli americani devono schierare presto 60 mila poliziotti iracheni, ma stanno invece riuscendo a trovarne non più di 28 mila. Stesse difficoltà per il nuovo esercito di Bagdad, che prevede 12 mila uomini reclutati entro un anno e 40 mila entro il 2006. Con la resistenza strisciante al governo di Bremer, pochi degli ex militari e pochissimi civili hanno voglia di tornare in divisa, paventando la vendetta del regime che ritengono ancora operante.

La battaglia di legittimità morale sulle armi di Saddam, la pacificazione dell'Iraq e il contenimento dell'indice di miseria sono i temi su cui la Casa Bianca di Bush vince o si smarrisce. Bush ha approvato riduzioni dei ticket sulle medicine, finanziamenti alla scuola e fondi contro l'Aids in Africa per accattivarsi i ceti medi moderati delle città. Se l'indice di miseria sale e i morti in Iraq non diminuiscono la corsa del 2004 sarà dura. Anche se per ora il capofila dei democratici è lo sconosciuto Howard Dean, considerato troppo progressista per vincere. Solo la cattura di Saddam o di Osama Bin Laden, caccia grossa per la politica, potrebbe blindare un risultato felice per Bush. Per ora non se ne vedono le tracce.

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