Da Corriere della Sera del 18/07/2003

Berlusconi da Bush, bilancio di una stagione

L’amico italiano parli da europeo

di Sergio Romano

Nel nuovo folclore politico americano un invito in Texas, nel ranch presidenziale di George W. Bush, vale quanto un invito a Versailles negli anni in cui Luigi XIV dominava l’Europa. Questo intruglio di pubblico e privato sembrerà a molti poco serio ed elegante. Ma l’ironia, soprattutto in bocca all'opposizione, sarebbe in questo caso inutile, se non addirittura controproducente. Quando chiede a un premier straniero di venire a casa sua, il presidente degli Stati Uniti dice sostanzialmente al mondo: quest'uomo è un amico. Bush e Berlusconi si piacciono, si apprezzano, si divertono a stare insieme e hanno evidentemente interessi convergenti. Tralasciamo le affinità elettive (una lunga esperienza nel mondo degli affari, lo sport come business, una certa inclinazione alle gaffes ) e cerchiamo piuttosto di capire quali siano questi interessi. Quando vinse le elezioni del maggio 2001 e constatò che una buona parte della politica europea gli era ostile, Berlusconi trovò subito a Washington una spalla su cui appoggiarsi. La nuova amministrazione americana non aveva pregiudizi, era incuriosita dalla personalità del nuovo leader italiano e preferiva trattare con un governo moderato piuttosto che con una variopinta coalizione di progressisti, Verdi ed ex comunisti. Da quel momento, e soprattutto dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre, Berlusconi cominciò a sperare che l’Italia sarebbe diventata il partner privilegiato degli Stati Uniti nell'Europa continentale, a sud della Manica.

La guerra contro il terrorismo e il vertice di Pratica di Mare gli offrirono l’occasione di consolidare il rapporto, ma la prova della verità venne quando gli americani decisero di fare la guerra a Saddam Hussein. Come Tony Blair, anche Berlusconi capì che l'Iraq, per gli americani, era un esame di amicizia. Passò l'esame quando firmò la lettera degli Otto (un documento filoamericano sottoscritto da otto governi europei prima del conflitto) e fece del suo meglio per stare al passo con la politica degli Stati Uniti. Ma non tutto andò secondo le sue speranze.

Non appena si accorse che il Papa era risolutamente pacifista e che il suo elettorato avrebbe dato retta a Giovanni Paolo II piuttosto che a lui, il presidente del Consiglio fu costretto a moderare il suo entusiasmo e a comportarsi con maggiore prudenza. Fu quello il momento in cui dovette cedere il passo al premier spagnolo Aznar e rischiò di perdere i vantaggi dei mesi precedenti. Recuperò prestigio alla fine delle ostilità quando promise che l'Italia avrebbe mandato in Iraq 3.000 uomini.

L'America gliene fu grata per due ragioni. Sperava che il contributo militare italiano avrebbe facilitato la creazione di una forza multinazionale, e si è servita dell'Italia (come della Spagna e della Polonia) per meglio isolare la Francia e la Germania. Anche per Bush, tuttavia, non tutto è andato secondo le previsioni. Il dopoguerra iracheno è molto più turbolento di quanto il suo segretario alla Difesa non gli avesse lasciato intravedere, e la forza multinazionale, dopo il rifiuto dell'India e le condizioni poste da Parigi e Berlino, stenta a decollare. Ma questi fattori, paradossalmente, rendono Berlusconi, per Bush, ancora più utile. Un amico è veramente tale soltanto nei momenti difficili.

Il presidente del Consiglio parte quindi per il Texas con un buon patrimonio di amicizia. Resta da vedere come intenda spenderlo. Spero si ricordi che i veri interessi dell'Italia sono, anzitutto, in Europa e che il presidente di turno dell'Unione ha l'obbligo di rappresentare, anche in Texas, i sentimenti e le aspirazioni della maggioranza dei popoli che ne fanno parte. Se non si presterà al divide et impera di Bush e gli parlerà, con stile italiano, anche a nome della Francia e della Germania, il battibecco con Martin Schulz a Strasburgo diventerà un aneddoto irrilevante.

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