Da Corriere della Sera del 26/07/2003

Coree, una festa tra i ricatti

di Sergio Romano

La lunga preparazione dell’armistizio che fu firmato a Panmunjom, sul confine tra le due Coree, il 27 luglio di cinquant’anni fa, comincia molti mesi mesi prima, nell’autunno del 1952. L’America era in campagna elettorale per la scelta del presidente che avrebbe sostituito Harry Truman alla Casa Bianca. I democratici avevano scelto un uomo simpatico e affabile, amato dall’ intelligencija liberal del Paese: Adlai Stevenson, governatore dell’Illinois. I repubblicani, decisi a riconquistare il potere dopo una lunga quarantena, avevano affidato le loro fortune al generale Dwight D. Eisenhower, comandante delle forze alleate in Europa durante la Seconda guerra mondiale e, sino ad allora, comandante supremo della Nato. La scelta non fu casuale: scelsero un militare perché gli Stati Uniti erano nuovamente in guerra. Alle 4 di mattina del 25 giugno 1950 le artiglierie della Corea del Nord avevano cominciato a martellare con le loro bordate le postazioni della Corea del Sud. Ci vollero quattro ore perché gli americani, a Washington, si rendessero conto che quello non era l’ultimo dei piccoli incidenti scoppiati nelle settimane precedenti, ma l’inizio di una guerra.
Dopo un micidiale fuoco di sbarramento, sette divisioni di fanteria e una divisione corazzata attraversarono la frontiera, travolsero le truppe del Sud, occuparono Seul e conquistarono in meno di un mese una larga parte del territorio della Repubblica meridionale.
La Corea del Nord e la Corea del Sud non erano Stati antichi. Erano le due metà di una regione che era stata per alcuni secoli vassallo dell’Impero cinese, poi condominio russo- giapponese e finalmente, dal 1910, colonia di Tokio. Verso la fine del conflitto, nella primavera del 1945, i sovietici si erano installati al Nord e gli americani al Sud, in attesa di una formale decisione sulla sorte unitaria del territorio «liberato». Ma la Guerra fredda, negli anni seguenti, creò nella penisola coreana esattamente l’identica situazione che si andava delineando, in quello stesso periodo, nella Germania occupata. Al Nord nacque una repubblica comunista, al Sud una repubblica più o meno democratica. Al Nord il potere cadde nelle mani di un proconsole sovietico, Kim Il Sung, che aveva vestito, negli anni precedenti, l’uniforme dell’Armata Rossa; al Sud in quelle di un vecchio uomo politico, Syngman Rhee, ritornato in patria da un lungo esilio.
Quando i sovietici e gli americani abbandonarono nel 1949 il loro rispettivo pupillo, sul piccolo palcoscenico coreano le due Repubbliche cominciarono immediatamente a farsi gli stessi dispetti che i due blocchi della guerra fredda si facevano contemporaneamente nel grande teatro europeo. Come altre guerre, anche quella del giugno 1950 fu il risultato di molti equivoci e malintesi. Kim Il Sung credette che il Sud non interessasse all’America e fosse ormai res nullius , roba di nessuno. Stalin commise lo stesso errore e gli dette via libera. E la Cina intervenne con i suoi «volontari» quando ebbe la sensazione (un errore, anche quello) che la flotta americana minacciasse da Formosa, dove si era insediato il governo nazionalista di Chiang Kai-shek, la sicurezza della Repubblica popolare.
Torniamo alla campagna per le elezioni presidenziali dell’autunno 1952. La televisione era già entrata nei salotti delle case americane, ma l’informazione politica «visiva» era ancora affidata ai cinegiornali e, in particolare, a un programma di attualità del gruppo Time and Life , intitolato «The March of Time», la marcia del tempo. Ogni sera, nelle sale cinematografiche del Paese, prima o dopo la proiezione del film, scorrevano sullo schermo le immagini di una guerra in cui ciascuna delle due forze combattenti aveva ormai incassato un numero pressoché eguale di vittorie e disfatte. I due candidati alle elezioni presidenziali sapevano che il vincitore avrebbe trovato aperto sul suo tavolo, nello Studio ovale della Casa Bianca, il dossier coreano.
Eisenhower aveva, nei confronti del suo avversario, una carta in più. Era un militare, aveva guidato le truppe alleate alla conquista del Terzo Reich e aveva una immagine paterna che ispirava fiducia. Con tono marziale disse, nel corso di un comizio: se sarò eletto, andrò in Corea. Era una frase oracolare, nello stile di quella («Vi ho compresi») che il generale de Gaulle pronunciò in Algeria all’epoca della guerra civile. Ma bastò perché Dwight D. Eisenhower divenisse, nel novembre del 1952, il 34° presidente degli Stati Uniti.
Mantenne la promessa e acconsentì qualche mese dopo a una soluzione che un presidente «civile», probabilmente, avrebbe potuto difficilmente accettare: un armistizio che fissava la frontiera, temporaneamente, al 38° parallelo, vale a dire là dove la guerra era cominciata e dove le truppe combattenti, dopo fasi alterne, erano ritornate. I coreani del Nord non erano riusciti a conservare la preda. I sovietici e i cinesi non erano riusciti a estendere le frontiere asiatiche del comunismo. Gli americani non erano riusciti a punire l’aggressore. Il solo vincitore fu la Corea del Sud, ormai certa che il suo territorio sarebbe stato protetto da una consistente presenza americana.
La guerra non modificò gli equilibri sul terreno, ma ebbe l’effetto di cristallizzare la differenza fra i due Stati. Il Sud passò attraverso una lunga sequenza di crisi politiche, ma cominciò a crescere impetuosamente e divenne, alla fine degli anni Novanta, la decima potenza industriale del mondo. Il Nord accentuò le sue caratteristiche comuniste, ma acquisì col passare del tempo una spiccata connotazione militare. Mentre il Sud si arricchiva fra putsch e scandali, Kim Il Sung creava uno Stato nuovo in cui la classe al potere veste la divisa delle forze armate e comanda un esercito composto da un milione di uomini. Non è sorprendente che questo comunismo in uniforme conosca e pratichi la diplomazia delle armi piuttosto che le armi della diplomazia.
Ne avemmo una dimostrazione quando la Cina di Deng Xiaoping scelse l’economia di mercato e l’Unione Sovietica, dopo la fine della guerra fredda, cessò di esistere. Mentre tutti gli Stati comunisti (persino il Vietnam, persino, in misura più modesta, Cuba) erano costretti a fare un po’ di perestrojka , la Corea del Nord alzò i ponti levatoi e si richiuse nella sua testuggine. Divenne aggressiva perché era isolata e sembrò comportarsi come quei soldati giapponesi che continuarono a combattere nella giungla, dopo il 1945, perché nessuno li aveva informati che la guerra era finita.
Con una importante differenza. La Corea del Nord sopravvive nella giungla del comunismo sconfitto con una lucida strategia ricattatoria. Lo «Stato canaglia», come lo definiscono i neoconservatori americani, non è privo di una certa perfida intelligenza. Ha industrie vecchie e inefficienti, non ha risorse naturali ed è assillato da carestie che hanno duramente provato la popolazione civile. Ma ha una splendida industria militare, fabbrica missili che tengono sotto tiro le coste giapponesi e ha progressivamente sviluppato, in questi ultimi anni, un ambizioso programma nucleare.
Dopo la morte di Kim Il Sung nel luglio 1994, suo figlio, il «caro leader» Kim Jong Il, ha fatto, con un tocco di imprevedibile fantasia in più, la stessa politica e ha registrato, nella seconda metà del decennio, qualche successo. Gli americani, all’epoca della presidenza Clinton, hanno cercato di ammorbidirlo con la promessa di due grandi reattori nucleari per la produzione civile. E il presidente progressista della Corea del Sud, Kim Dae Jung, lanciò, non appena eletto, una politica di conciliazione che dette risultati modesti, ma pur sempre apprezzabili. Il primo vertice fra i due Kim a Pyongyang sembrò annunciare una nuova era.
La situazione è peggiorata dopo l’elezione alla Casa Bianca di George W. Bush. Per colpa della duplicità di Kim Jong Il o della politica aggressiva della nuova amministrazione? E’ difficile dirlo, anche perché il leader coreano ha l’abitudine di giocare d’anticipo. Quando ha letto il nome del suo Paese nel catalogo dell’«Asse del male» e ha scoperto di essere ormai ufficialmente nel mirino dei falchi di Washington, ha cominciato a buttare sul tavolo tutte le sue carte nucleari. Quando gli Stati Uniti hanno cominciato a preparare la guerra contro l’Iraq, ha capito che l’America non avrebbe potuto affrontare due crisi contemporaneamente e non ha esitato ad assumere posizioni provocatorie. Più recentemente il regime si è spinto sino a proclamare «criminali di guerra» tutti i presidenti americani da Bush a Truman passando per Clinton, Bush senior, Reagan, Carter, Ford, Nixon, Johnson, Kennedy ed Eisenhower. Non basta. Fra qualche ora la Corea del Nord celebrerà il cinquantesimo anniversario dell’armistizio di Panmunjom come una grande vittoria, con marce trionfali e festeggiamenti nazionali.
Il messaggio del «caro leader» all’America è chiaro: potete eliminarmi, se volete, ma a un prezzo infinitamente più elevato di quello che state pagando in Iraq. Naturalmente dietro questa sfida apparentemente disperata vi è anche un calcolo: la convinzione o, meglio, la speranza che i Paesi della regione gli daranno una mano. Non ha torto. La Cina, la Russia, il Giappone e la Corea del Sud non provano per il suo regime alcuna simpatia, ma preferiscono convivere con un comunismo militare piuttosto che assistere a una guerra, combattuta sulla soglia delle loro case, da cui gli Stati Uniti, verosimilmente, uscirebbero vincitori e onnipotenti.
Fare previsioni, in una situazione così profondamente irrazionale, sarebbe un esercizio inutile. Possiamo soltanto constatare che raramente l’arte del ricatto è stata praticata con altrettanto consumata abilità.
 
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