Da La Stampa del 25/07/2003

Il rischio di farne dei martiri

di Filippo Ceccarelli

OCCHI pesti, grumi di sangue, volti deformati: di solito i cadaveri non sono fotogenici. Ma nel cuore dei popoli ci mettono poco a diventarlo.

Così può addirittura rivelarsi un boomerang la diffusione, anzi il lancio mondiale delle foto dei figli di Saddam Hussein dopo il bombardamento. I martiri, in effetti, devono essere sempre visibili; e proprio l’orrore che crea la loro vista ne esalta il sacrificio, in qualche modo gli restituisce la vita, ne fa delle icone che guidano i vivi.

Si pensi all’ultima foto del Che, disteso nudo su quella specie di bancone d’obitorio. Quanto di più simile - sul piano estetico, s’intende - a certe pitture religiose del Quattro o del Cinquecento. Proprio un amico di Guevara, lo scrittore Régis Debray, ha spiegato il nesso inestricabile che esiste tra la morte e l’immagine. E’ stato così, in fondo, anche per i Kennedy; e in Italia per Mussolini, per Moro, per Carlo Giuliani.

Se si hanno in mente le masse arabe, mostrare dunque i corpi dilaniati di Uday e Qusay - altrimenti raffigurati da vivi con ricchi sigari e odiosi cappelli Panama - può essere un’operazione politica quasi certamente in perdita. Ma se al contrario si considera il vasto pubblico americano, i milioni di telespettatori dei network che da mesi aspettano invano la prova della promessa distruzione fisica di Osama o di Saddam, quelle stesse foto sanguinolente possono essere, più che utili o convenienti, perfino indispensabili.

Del tutto speculare alla scelta di non esporre mai agli obiettivi e alle telecamere i corpi delle vittime dell’11 settembre, il messaggio è stavolta piuttosto chiaro nella sua brutalità: i cattivi sono stati puniti, in questo modo finiscono i nemici, chi vuole mettersi contro di noi guardi questi morti ammazzati e rifletta. E’ una prova di forza e al tempo stesso un monito. L’aspetto macabro di tutta la faccenda, l’orrore che suscitano quelle immagini, le perplessità sul mostrarle o no appaiono, dal punto di vista della politica, del tutto fuori causa. Se ispirano paura, tanto meglio.

Tra questi due fuochi, tra la fabbrica rabbiosa dei martiri e il proseguimento della guerra con i mezzi visivi e televisivi, occorre considerare come quelle foto, dopo tutto, servano in entrambi i casi allo stesso fine, che è la violenza. Mentre invece c’è forse un altro sentimento per osservarle: la pietà. Una pietà consapevole del male che c’è dentro la storia, e anche del male che si aggiunge non solo straziando dei corpi, ma utilizzandoli per straziarne altri ancora.

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