Da Internazionale del 25/07/2003

Letture estive

di Paul Kennedy

A Washington è arrivata l'estate. Per le élite che governano l'America è ora di prendere in mano quei libri, vecchi e nuovi, che da un anno tengono sul comodino. Chissà quali saggi il presidente degli Stati Uniti, la persona più potente del mondo, leggerà nelle prossime settimane a Crawford, in Texas, o a Kennebunkport, nel Maine. Forse i libri migliori sono quelli consigliati dagli amici. Facciamo finta che il primo ministro britannico Tony Blair continui gli sforzi per scongiurare le manifestazioni più estreme dell'unilateralismo americano: quale saggio di storia potrebbe favorire l'obiettivo?
La mia proposta è uno studio pubblicato nel lontano 1961 da due professori di Cambridge, Ronald Robinson e John Gallagher, intitolato “Africa and the Victorians: the official mind of imperialism”. Un po' invecchiato, potreste pensare, no? Per niente. Dovrebbe essere una lettura obbligatoria non solo per il presidente, ma soprattutto per Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Condoleezza Rice e per i loro consiglieri che oggi promuovono le politiche "imperiali" dell America.
La "spartizione" britannica dell'Africa tra il 1880 e il 1900 è stata spesso considerata dai suoi critici come una forma di rude sciovinismo, misto a un desiderio di controllare le materie prime strategiche e i mercati stranieri: una critica piuttosto simile agli attacchi più radicali contro le attuali politiche statunitensi in Iraq. Ma nell'opera di Robinson e Gallagher, basata su uno studio approfondito dei documenti confidenziali di ministri e altri funzionari britannici, emerge una storia diversa.
Queste persone non volevano un impero in Africa (i più cinici diranno che ne avevano già avuto abbastanza in India, in estremo oriente e nei domini del Commonwealth). Si preoccupavano che le loro forze fossero sovraesposte. Erano sempre alla prese con doppie o triple crisi. E c'era un altro problema: generali e ammiragli si lamentavano di continuo per lo "slittamento della missione" e per le forze inadeguate.
Ma era sempre estremamente difficile stabilire un limite. II problema più grande per i politici del periodo centrale e finale dell'età vittoriana fu quello che Robinson e Gallagher definirono efficacemente "le frontiere sempre nuove dell'insicurezza°. Dopo aver occupato l'Egitto nel 1882, i britannici avvertirono la minaccia dell'instabilità nel Sudan, che a sua volta dovette essere conquistato. Poi sorse la possibilità che forze straniere s'impossessassero delle sorgenti del Nilo, e di conseguenza questo li spinse a occupare l'Uganda. La difesa dell'India britannica richiese il controllo della situazione politica in Birmania, Tibet, Afghanistan, Persia e Golfo Persico. Dopo aver osservato per quarant'anni questa espansione, il navigato Lord Balfour (già primo ministro e ministro degli esteri) osservò verso il 1918 che un giorno le guarnigioni britanniche avrebbero occupato i sobborghi meridionali di Mosca per prevenire una possibile minaccia sull'Himalaya. Per usare un'altra nota definizione, questi politici erano "imperialisti riluttanti , che promettevano sempre di stare andando in un nuovo territorio per assicurare stabilità, dopo di che si sarebbero ritirati. Ma intanto andavano.
In un periodo in cui si invitano gli Stati Uniti a intervenire per stabilizzare la Liberia, in cui arrivano notizie su un deterioramento della situazione in Afghanistan e in cui continuano gli attacchi in Iraq, questo studio merita un'attenta lettura. Certo, tra i due casi di una superpotenza trascinata in conflitti distanti ci sono evidenti differenze. Ma una cosa che impressionò i due storici di Cambridge è quanto fosse difficile tirarsi fuori da un'operazione all'estero dopo essere intervenuti. E anche se nessuno sta suggerendo che gli Stati Uniti restino in Medio Oriente per mezzo secolo, le prove di una grande potenza che sembra progressivamente "imbrigliata" in diverse parti del globo crescono ogni settimana. Chiaramente in questo caso non c'è una risposta semplice. Ritirare subito tutte le forze americane all'estero, come suggeriscono gli isolazionisti, getterebbe diversi paesi nel caos. Mala costante pressione per uno "slittamento della missione" e nuovi interventi dovrebbe essere inquietanti anche per gli odierni espansionisti neoconservatori.
Questo dev'essere anche la principale preoccupazione del presidente, perché è lui che deve decidere le nostre priorità strategiche e umanitarie. È lui che deve evitare la schiavitù dell'impero e trovare dei modi per tutelare gli interessi statunitensi e sostenere la stabilità globale senza rischiare l'eccessiva espansione che alla fine erose il potere vittoriano.
E poiché è difficile vedere come tutte le attuali crisi possano essere risolte senza un serio impegno coordinato della comunità internazionale, è il presidente che deve portarci a una riconciliazione con il sistema delle Nazioni Unite e a un suo rafforzamento, senza il quale abbiamo scarse possibilità di raggiungere un buon ordine mondiale.

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