Da Corriere della Sera del 28/07/2003

INTERVISTA/ Hoagland del Washington Post : l’opinione pubblica vuole essere certa che la Casa Bianca saprà chiudere la partita

«Bush deve far capire che i soldati torneranno»

«Le perdite non spaventeranno la gente se le prospettive di successo finale resteranno chiare»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - «Paul Bremer, il rappresentante di Bush, dice che in Iraq ce la faremo. Ma mi chiedo se ne avremo il tempo necessario, se l'impazienza dell'America potrà essere contenuta di fronte a progressi ambigui, e a rovesci che ricevono enorme rilievo sui media». Così Jim Hoagland del Washington Post , uno dei più autorevoli opinionisti Usa e dei più vicini alla Casa Bianca, scriveva ieri di ritorno da Bagdad. Hoagland ha visitato l'inquieta zona sud sciita, il letale «triangolo sunnita» presso la capitale e la zona curda a nord. Discute con il Corriere della Sera l'impatto che le quasi quotidiane uccisioni dei soldati americani potrebbero avere sull'America.

Fino a quando il pubblico resisterà allo stillicidio? A un certo punto non si ribellerà, come accadde ai tempi del Vietnam?
«L'obbiettivo dei baathisti, i sopravvissuti del partito di regime, perché in maggioranza sono loro i killer, è centrato su quello che chiamo "l'impazienza strategica" dell'America. I baathisti si sono resi conto che non possono riprendere il potere come blocco. Perciò vogliono creare nel loro triangolo una situazione tipo Somalia del '93, o Beirut un decennio prima, sangue, caos e rovine. Ricordano il detto di Saddam Hussein: gli americani non accetteranno un'altra sfilza di caduti come nel Vietnam».

Si può quantificare il limite di tolleranza dell’America di fronte a questa tattica? Mille morti? Di meno, di più?
«Non ancora. E' più importante il contesto. Se le cose in Iraq andranno bene, l'America resisterà. Ce ne siamo dimenticati, ma resistette per due anni anche in Vietnam. Fu solo nel '68, dopo l'offensiva nemica del Tet, che perse la fiducia. In Iraq l'amministrazione deve dimostrare di sapere vincere la pace e di poter portare i nostri soldati a casa».

Non mi pare che lo stia dimostrando...
«E' stata lenta, confusa e incerta. Ma la Casa Bianca e persino il Pentagono hanno capito di avere sbagliato. Sanno che se daranno ancora un'impressione di inefficienza, se le cose andranno male, il pubblico americano si stancherà in fretta. Cercano di rimediare. A mio parere nel triangolo sunnita hanno però solo uno, due mesi di tempo».

Il triangolo sunnita: ma non c'è una resistenza anche altrove, a esempio nel sud sciita?
«La resistenza non è così diffusa come traspare dai nostri media, e gli sciiti sono impegnati in lotte interne di potere. Sono i baathisti che hanno i soldi e le armi. Reclutano i giovani disoccupati e disamorati, e li pagano 500 dollari per ogni americano assassinato».

E' vero che il morale delle vostre truppe è a pezzi, che vogliono andarsene?
«Il quadro cambia a seconda delle zone. Nel triangolo intorno a Bagdad, le truppe sono scontente: l'occupazione è difficile, molte sono nel Golfo da un anno, non si sa quando saranno avvicendate, il Pentagono cambia sempre date. Ma nel nord il morale è molto alto: la gente collabora con le truppe, si costruiscono scuole. A sud gli inglesi preferirebbero rientrare, però non mollano».

Nel sud ha incontrato i carabinieri italiani?
«A Bassora gli inglesi ne sono entusiasti. Sono i più preparati ad affrontare i problemi sul terreno, un misto di criminalità e disaffezione. Svolgono un'azione di ordine e di prevenzione molto efficace».

Secondo lei per farcela in Iraq l'America ha bisogno di un aiuto internazionale?
«Sì. Il segretario dell'Onu Kofi Annan mi telefonò dopo avere incontrato Bush alla Casa Bianca e mi disse che il presidente aveva discusso con lui un ruolo dell'Onu nella ricostruzione irachena. Annan è molto pragmatico, e Bush può esserlo, anche se l'amministrazione è divisa in merito. Penso che ci sia un ruolo anche per l'Europa, limitatamente alle aree senza gravi problemi».

Francia, Germania e Russia incluse?
«In ambiti circoscritti sì. Penso che inizialmente Bush volesse escluderle, come la maggioranza dei Paesi europei. Ma ha toccato con mano che sarebbe controproducente. E i russi stanno già prendendo contatti, con molta discrezione, coi leader politici ed economici iracheni».

La credibilità del presidente è stata intaccata dalla falsa intelligence sull'uranio di Saddam Hussein ...
«Mi lasci dire che la controversia è un prodotto del disagio dell'America per le uccisioni dei suoi ragazzi in Iraq e l'apparente incompetenza dell'amministrazione. E' un segno dei pericoli a cui va incontro Bush. La controversia cesserebbe se avessimo successo».

E le polemiche sui video dei figli di Saddam Hussein?
«I video lasciano l'amaro in bocca, ma erano necessari: si tratta di vincere la guerra psicologica, gli iracheni sono ancora terrorizzati dal raìs, non ne pronunciano neppure il nome. Se Saddam verrà eliminato dovremo fornire le prove. Le implicazioni strategiche sono troppo importanti».

A suo giudizio, l'America vincerà o no la pace?
«Gli sforzi americani non sono ancora andati perduti e potrebbero essere vittoriosi».

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