Da Famiglia cristiana del 31/07/2003

Pino Arlacchi: «La droga regna in Afghanistan»

Papaveri e armi

«La produzione di papavero da oppio», dice il sociologo, «è su livelli record. Così i signori della guerra ricavano un miliardo di dollari l’anno, per finanziare il terrorismo».

di Fulvio Scaglione

Rientrato a Roma da Vienna, dove per cinque anni (1997-2002) ha diretto il Programma Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Pino Arlacchi non ha dimenticato le battaglie di un fresco passato. Non stupisce, quindi, che sia proprio lui a lanciare un allarme sull’Afghanistan. Dove tante cose vanno meglio, ma ne va peggio una assai pericolosa.

«Uno degli effetti perversi della guerra contro i talebani», dice Arlacchi, «è la nuova esplosione della produzione di droga. Nel 2001 la comunità internazionale e soprattutto l’Onu erano riusciti, per la prima volta dopo 50 anni, a far crollare la coltivazione del papavero da oppio. La produzione si era ridotta del 90 per cento, da 3.270 tonnellate a 185. Dopo la media di 2-3 mila tonnellate l’anno degli anni Novanta, e il picco di 4.500 tonnellate del 1999, eravamo quasi scesi a zero. Stavamo per lasciare a secco di eroina il mondo, perché l’Afghanistan è responsabile del 70-80 per cento della produzione totale di papavero. Tanto che Keith Halloway, "zar antidroga" inglese, propose di comprare l’intero raccolto per toglierlo di mezzo. Proposta che non condividevo…».

Perché?
«Perché questa politica è stata tentata per decenni nel Sudest asiatico e non ha mai dato frutti. E non solo: una volta che si acquista una derrata illecita come l’oppio, si crea un enorme incentivo per produrne di più l’anno dopo, anzi se ne garantisce il mercato. Ma era un’idea che allora poteva venire, perché il valore della produzione afghana era basso, sui 100 milioni di dollari. Il problema dell’oppio afghano in fondo è un piccolo problema: mezzo milione di contadini su 26 milioni di abitanti, l’1 per cento della terra arabile. Anche adesso, con l’incremento delle coltivazioni, sono circa 75 mila gli ettari a papavero. Il minimo che si possa dire è che si è persa una grossa occasione»

Come si era arrivati ai risultati del 2001, con i talebani a Kabul?
«L’Onu aveva usato tutti i suoi strumenti, infliggendo due tornate di sanzioni ai talebani. E poi la diplomazia internazionale e quella delle Nazioni Unite avevano messo contro il regime di Kabul tutti i Paesi circostanti, anche quelli amici dell’Afghanistan, perché è lì che viene consumata metà della produzione afghana. Iran, che ha oggi 1 milione di tossicodipendenti, Russia (1 milione e mezzo, e un mercato nuovo e ricco per le droghe), Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan, tutti avevano visto crescere in casa loro il problema in corrispondenza con l’aumento della produzione in Afghanistan. Così i talebani arrivarono a proibire formalmente l’oppio. L’Onu aveva anche preparato un programma di sviluppo alternativo, basato sulle coltivazioni legali e sulla trasformazione dei prodotti agricoli per dare lavoro anche alle donne, che sarebbe costato solo 25 milioni di dollari l’anno per alcuni anni».

Poi arriva la guerra e i talebani scappano. Che cosa non funziona?
«Nessuna delle potenze della coalizione antitalebana si cura della questione oppio, gli aiuti tardano, i contadini ripiantano alla grande e si torna ad avere 75 mila ettari coltivati a papavero. Il tutto mentre per la ricostruzione dell’Afghanistan si parla di investire 15-20 miliardi di dollari in cinque anni. Ma il fenomeno più sconcertante riguarda i prezzi. Che invece di calare, con l’aumento della produzione e la sostanziale stasi (se non diminuzione) della richiesta di eroina in Europa e negli Usa, crescono in misura quasi incredibile. Alla fine degli anni Novanta un chilo di oppio costava, in Afghanistan, tra i 30 e i 40 dollari: pochi mesi fa, invece, eravamo a 600 dollari al chilo, poi attestatisi intorno ai 300-400, che vuol sempre dire dieci volte più di prima della guerra. Risultato: il valore della produzione afghana supera oggi il miliardo di dollari».

Come spiega un simile fenomeno?
«L’unica spiegazione è che si sia formato un cartello di produttori capace di tenere artificialmente alti i prezzi. Cartello che quasi di sicuro coincide con la mappa politica dell’Afghanistan, con i territori dei diversi signori della guerra».

Lei definiva la riesplosione della produzione di papavero un "effetto perverso" della guerra. È cinico sospettare che il "liberi tutti" fosse nei patti con cui gli Usa ottennero il sostegno dei signori della guerra contro i talebani?
«Che gli Usa abbiano siglato accordi con i signori della guerra è storia. L’Alleanza del Nord era una federazione di feudatari che già prima combatteva i talebani sostenuta un po’ da tutti, russi, americani, indiani… Che questi signori abbiano ricevuto molti soldi è acclarato. Basta leggere il libro di Bob Woodward, appena tradotto in italiano, per ricordarsene. L’elemento chiave, però, è stata la decisione di voltarsi dall’altra parte e sacrificare il problema droga alla lotta contro il terrorismo. Scelta poco intelligente, perché con quel miliardo di dollari i signori della guerra si rendono indipendenti dagli aiuti occidentali, comprano armi per i propri eserciti (rendendo così l’Afghanistan, in una fase di rinascita economica assai vivace, sempre meno governabile) e, di conseguenza, acquistano potere politico. Quelli che hanno simpatia per i fondamentalisti islamici, poi, usano i soldi per finanziare il terrorismo contro gli Usa e l’Occidente».

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