Da La Repubblica del 14/07/2003

Pronto il palazzo che deve ospitare i primi processi ai 680 accusati di terrorismo

I Tribunali speciali di Guantanamo. Gli avvocati: “Difesa senza diritti”

di Carlo Bonini

GUANTANAMO – CHE l’Europa faccia pure la voce grossa. In fondo, non sarà affare del colonnello Barry Johnson, portavoce della task force di Guantanamo, quel che accadrà nella baia dei dannati da qui a due mesi, o giù di lì. Lui ha la borsa pronta per l’avvicendamento. Ancora trenta giorni e poi a casa. «Un anno di studio a New York. Quindi un ufficio al Pentagono». Epperò, concede il colonnello, «i processi ai detenuti di Camp Delta non saranno affare né semplice, né indolore».
Johnson ha servito con la Nato in Germania e nel quartier generale del corpo di spedizione Usa nei Balcani.

È un ufficiale che riconosce le sfumature e non rinuncia alle sollecitazioni dell’altra sponda dell’Atlantico. «Leggo con attenzione quel che scrive la stampa inglese, mi preparo ad accogliere sull’isola giornalisti tedeschi, sto parlando con un cronista italiano. Non posso che constatare che in Europa, su questa storia, è cominciata una dura partita politica. E siamo solo all’inizio. Vedremo...».

Da quando George W. Bush ha pescato nel sarcofago di “Camp Delta” i nomi dei primi sei detenuti da spedire alla sbarra dei tribunali speciali, sull’isola si sono messi al lavoro manovali filippini e giamaicani. Di quelli che al tramonto incontri piegati dallo sfinimento sul ferry che unisce Leeward e Windward, le due sponde della baia. Dodici ore filate sui ponteggi sotto un sole cattivo. Per tirar su qualcosa che somigli ad un’aula di giustizia, ad una cancelleria penale, a un archivio, a un dormitorio dove relegare in gran segreto giudici, pubblici ministeri e avvocati senza nome. Che celebreranno processi forse a porte aperte; «o forse no». Che pronunceranno sentenze in due giorni, «o forse in due mesi». Che giocheranno con le prove al riparo della discrezionalità che gli riconosce «l’interesse supremo alla sicurezza nazionale».

Il capitano Les Mc Coy, comandante della base navale, si compiace con un sorriso: «Direi che con il Tribunale siamo a un buon punto. Diciamo che non abbiamo potuto rifinirlo in mogano, ma insomma... il “Pink Palace” è pronto ad accogliere i tribunali speciali».

Il “Pink Palace” è una costruzione rettangolare in legno a due piani, sopraelevati in una torre di osservazione. Domina la baia sulla sponda di Windward. E irta di antenne e sorvegliata dal pennone dell”orgoglio”, la bandiera dell’Unione che sventola alta su tre antichi affusti di cannone rivolti alla Cuba di Castro. Al suo ingresso è stato inchiodato il tributo di “Camp Delta” («Onore alla difesa della libertà»). Di “rosa” non ha nulla. E nessuno sembra sapere perché diavolo qualcuno abbia deciso di chiamarlo così, “Pink Palace”. Il suo è un colore vaniglia pallido che sa di vernice fresca. Non poi così diverso dalle tinte tenui della “Jerk house”, il fast-food giamaicano dove alle sette di sera si ritrova a ciondolare l’umanità dispersa della base. Il capitano Moss è chino su un eccellente combo di riso e pollo piccante. È un riservista dell’81esima divisione fanteria. Lavora nello staff del comando e prima di ritrovarsi qui era un insegnante. «Assistente del preside di una scuola elementare in Virginia», chiosa con orgoglio.

Moss si chiede e chiede con pudore: «Guantanamo sarà una nuova Norimberga? Può davvero esserlo?».

La domanda del capitano Moss è quantomeno La domanda delle opinioni pubbliche dei 42 paesi che hanno almeno una faccia o un nome tra i 680 «combattenti nemici fuorilegge» di “Camp Delta”. Una domanda storicamente giustificata se non altro da una comune circostanza. Come a Norimberga, i giudici del “Pink Palace” potranno mandare l’imputato ai patibolo. Ieri una forca, oggi una sedia elettrica. E per trovare una decente risposta, non esiste altro strumento che lo spartito di regole che governeranno il funzionamento dei tribunali speciali.

Da qui bisogna cominciare.

Firmate dal segretario alla difesa Donald Rumsfeld nell’aprile scorso, sono sette le “Military commission instruction” – regolamenti di attuazione, diremmo dalle nostre parti – che, dando corso all’ordine presidenziale di George W. Bush del 13 novembre 2001 sulla «detenzione, trattamento e giudizio dei cittadini non americani nella guerra contro il terrorismo», istituiscono i tribunali speciali militari. Una pioggia di norme che ridisegnano a mano libera i principi del giusto processo. Che ne cancellano le garanzie e ne alterano gli equilibri. Affidando alla Casa Bianca il potere esclusivo di esercizio dell’azione penale, l’esecuzione della pena (detentiva o capitale) e ogni eventuale decisione di revisione di un giudizio che, per legge, non potrà avere appello.
I 680 di “Camp Delta” non lo sanno (e forse mai lo sapranno), ma le sette “Military commission instructions” sono state cucite sul loro incerto status di «combattenti nemici fuorilegge». Quello stesso status che, oggi, li priva del pieno riconoscimento di prigionieri di guerra.

Che oggi, li rende interdetti all’esercizio del primo dei diritti di un detenuto sottoposto a interrogatorio: l’assistenza di un legale. Che, domani, li metterà nelle condizioni di giocare una impari partita processuale.

I 26 tra «crimini contro l’umanità» e «reati comuni» per i quali – senza limite di tempo – i 680 di “Camp Delta” possono essere rinviati a giudizio dal presidente degli Stati Uniti e dal segretario alla Difesa, e dunque processati e condannati al “Pink Palace”, sono l’esatta trasposizione della percezione che Washington ha del nuovo Terrore. Sia quando veste la divisa stracciona dei Taliban o dell’irregolare iracheno che combattono in campo aperto, sia quando veste gli abiti civili del dirottatore votato ad Al Qaeda.

Omicidio volontario; attacco a popolazioni civili; attacco ad obiettivi civili; attacco a proprietà civili; saccheggio; rifiuto di concedere la resa; presa di ostaggi; uso di veleni o armi di distruzione di massa; uso di scudi umani; impiego di proprietà civili allo scopo di difendersi in battaglia; tortura; sevizie; mutilazione; tradimento o altra macchinazione; uso improprio della bandiera bianca o della tregua; uso improprio di emblemi di protezione; vilipendio di cadavere; violenza sessuale; dirottamento o minaccia alla sicurezza di aerei e navi; attività terroristica; omicidio di persona belligerante indifesa; distruzione di proprietà civile indifesa; intelligenza con il nemico; spionaggio; spergiuro; falsa testimonianza; ostruzione alla giustizia dei tribunali militari.

Eccolo, l’elenco di Rumsfeld. Capace di sottrarre alla potestà del Congresso (e dunque al legislativo) il potere di definire nuove figure di reato. Così bulimico nell’allargare la competenza dei tribunali militari da sollecitare l’inquietudine del “Lawyers Committee for Human rights” di New York. «Per come è tracciata si legge in un loro recente rapporto (“Trias under military order – a guide to the final rules for Military commission”) – la competenza dei tribunali speciali modifica la nozione stessa di conflitto armato, finendo per consegnare alla “legge di guerra” reati sin qui affidati al giudizio di corti civili».

***

Il tableaux delle competenze dei tribunali speciali, dei reati di cui saranno investiti, suggerisce di per sé un approccio. Le regole che ne governeranno l’accertamento ne svelano la filosofia.
Segreta nella fase di indagine, l’istruttoria resterà segreta anche al dibattimento. Sarà affare di spie, di testimoni senza nome, di rapporti investigativi di cui, per ragioni di sicurezza nazionale, la procura militare e il tribunale potranno tacere la provenienza. Seduto sulla panca del “Pink Palace”, il disperato di “Camp Delta” sarà travolto dalle “prove” raccolte nel periodo della sua cattività. Anche quelle ramazzate all’interno dei cubicoli adibiti a sala interrogatori dagli uomini dell’intelligence militare nei suoi mesi di prigioniero in attesa non di un giudizio, ma di un qualche destino (del resto se e quando arriverà il suo rinvio a giudizio sarà affare esclusivo del presidente degli Stati Uniti e dei suoi consiglieri).

Certo – concedono le “Military commission instructions” – l’imputato «sarà riconosciuto innocente fino a condanna emessa», «avrà diritto ad un interprete», «all’assistenza di un difensore», ma non al pieno accesso alle prove. L’accusa scoprirà le sue carte se e quando lo riterrà opportuno. Al suo fascicolo di indagine la difesa non avrà alcun accesso preliminare. Per confutarne la fondatezza, l'imputato avrà la sua sola voce o qualche straccio di testimone che il suo intuito, la sua memoria, o la buona volontà dell’avvocato difensore avranno spinto a deporre. L’imputato potrà scegliere tra un difensore di ufficio in divisa ed uno di fiducia civile, ma si contano sulle dita di una mano, gli avvocati americani disposti a un tale salto nel buio. E per più di una buona ragione, come spiega uno di loro a Repubblica nell’intervista qui accanto. Su tutte, il registratore dell’intelligence militare che imprimerà su nastro ogni singolo colloquio privato tra imputato e difensore. In aula e fuori. Rendendo così una barzelletta il «diritto a tacere per non auto accusarsi». Impedendo anche solo un comune abbozzo di strategia difensiva.

La pubblicità delle udienze sarà discrezionale. Ancora una volta, ragioni di «sicurezza nazionale», consentiranno al tribunale speciale di escludere dall’aula non soltanto il pubblico, ma l’imputato e il suo difensore. E poco importa che la possibilità di contro-esame ne venga stravolta. Del resto il presidente del tribunale, nel valutare l’ammissibilità di una prova, nel condurre tempie modi del dibattimento avrà – a quanto Rumsfeld ha disposto – un’unica bussola. Testualmente: «Ciò che appare ragionevole a un normale individuo». Già, cosa sarà «ragionevole» al “Pink Palace”? Cosa non lo sarà? E ancora: l’eventuale “irragionevolezza” di una sentenza di primo grado potrà essere corretta in appello?

Domande non oziose in un processo le cui regole non contemplano il diritto dell’imputato ad impugnare la propria condanna di fronte a un secondo giudice. Anche se dovesse essere una condanna a morte. L’appello – prescrivono i decreti di Bush e Rumsfeld – sarà affare di scartoffie. La burocrazia del Pentagono nominerà commissioni di tre ufficiali delle forze armate che siederanno permanentemente a Washington. In un ufficio che del processo di primo grado non sentirà mai l’odore, né le grida. Riceveranno automaticamente tutte le sentenze di primo grado e in non più di trenta giorni dovranno pronunciarsi sulla loro legittimità formale. Un bollo e la pratica tornerà a Rumsfeld perché provveda, lui o Bush, ad ordinare l’esecuzione della condanna.
Dunque e ancora una volta. Cosa sarà «ragionevole» al “Pink Palace”? E cosa lo sarà a Washington?

Ad oggi, siamo alle dichiarazioni di intenti. Quelle consegnate a telecamere e taccuini, poco più di due mesi fa al Pentagono, dai due ufficiali che nell’applicare questa “legge di guerra” dovranno provare a darle anche una qualche forma e sostanza di legalità: Frederic Borch, colonnello dell’esercito e Will A. Gunn, colonnello dell’aeronautica. Il primo, nominato da Rumsfeld procuratore capo del team d’accusa, istruirà i processi del ”Pink Palace”. Il secondo, capo del team di difensori, avrà l’incarico di ribaltarne, almeno parzialmente, un esito che appare scontato. «Perseguirò – ha detto Borch – le violazioni delle leggi di guerra. E ciò che storicamente hanno fatto gli americani con i tribunali speciali. Lo abbiamo fatto dopo la Seconda guerra mondiale. Lo faremo nuovamente con il terrorismo. Assicurando a ciascuno un giusto processo».
«No, non saremo una difesa rassegnata – ha assicurato Gunn – Quando sono stato contattato dal Pentagono, ho capito immediatamente che il ruolo di eroe d’America lo avrebbe avuto il procuratore capo. A me è toccato l’altro ruolo e in quel momento ho pensato che nelle nostre mani non sarà solo il destino dei singoli, ma quello della nostra nazione».
Al tavolo della “Jerk house”, il capitano Moss ha finito il suo combo di riso e pollo piccante. Torna a chiedere: «Guantanamo sarà una nuova Norimberga?».

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