Da The New York Times del 16/07/2003

Uno scandalo racchiuso in quelle sedici parole

di Nicholas D. Kristof

DOPO che un mese fa ho scritto dell’inganno sull’uranio del Niger nel discorso sullo Stato dell’Unione, una fonte di alto grado della Casa Bianca mi ha ripreso con grande gentilezza, spiegandomi che c’era dell’altro su quella storia, qualcosa di cui non ero a conoscenza. Ebbene sì. Ora, però, quel qualcosa sta saltando fuori.

Da conversazioni con persone appartenenti alla comunità delle intelligence sta emergendo il seguente quadro: la Casa Bianca, smaniosa di dare pepe al discorso sullo Stato dell’Unione, resuscitò in modo sconsiderato la soffiata sull’uranio del Niger che aveva già perso credito. La Central Intelligence Agency fece delle obiezioni, e quindi insieme al Consiglio per la Sicurezza Nazionale riformulò l’informazione, attribuendola agli inglesi. Insomma, accusare i nostri cugini di aver mentito è parso meno disonesto.

Ciò che mi preoccupa non è tanto quel singolo episodio, bensì il sempre più vasto schema di disonestà e di delusione che si va delineando in merito a ciò che ci ha fatto entrare nella faccenda dell’Iraq – e che ha creato false aspettative che tuttora minano la nostra occupazione. Nell’amministrazione c’è chi sta cercando di fare di George Tenet il capro espiatorio dell’intera faccenda. Ma un gruppo di spie in pensione, denominato Veteran Intelligence Professionals for Sanity, lunedì ha inviato al presidente Bush una lettera aperta che riflette l’opinione di molte persone all’interno della comunità dell’intelligence, secondo la quale il colpevole principale è il vice presidente Dick Cheney. Nella lettera aperta si chiedono le sue dimissioni.

Condoleezza Rice ha dichiarato di aver appreso della missione in Niger di accertamento dei fatti dell’ex ambasciatore Joseph Wilson soltanto durante un’intervista televisiva – presumibilmente quando George Stephanopoulos le ha chiesto durante la trasmissione “This Week” dell’8 giugno il suo parere su un mio articolo nel quale avevo descritto la missione. (Condi, mi spezzi il cuore, davvero non l’avevi letto? Che ne dici se ti mando per fax una copia di tutto quello che scrivo, così non ti perdi nessuna informazione, e se anche tu mi faxi tutto quello che scrivi?)

Francamente non posso far altro che concordare con Rice che l’attenzione su quella sola, unica frase contenuta del discorso sullo Stato dell’Unione è un tantino ossessiva. In fondo si trattava soltanto di 16 parole, impostate in una maniera talmente subdola da parere quasi perfette, e del resto, come sa bene ogni giornalista, può sempre capitare, scrivendo, di fare degli errori.

Quindi il problema non sono tanto quelle 16 parole, ma il dilagante schema di uso improprio delle intelligence. Non tutto il male viene per nuocere: ora le spie sono così adirate che si stanno facendo sentire.

La Dia, la Defense Intelligence Agency, ha organizzato degli incontri in municipio per esortare tutti a non parlare con i giornalisti (grazie ragazzi per aver fatto il mio nome in particolare.) Uno di loro si è così lamentato: “Nel corso del più recente incontro ci è stato riferito che per quanto è possibile dovremmo evitare di ‘purgare’ le valutazioni delle nostre intelligence... Niente sfumature, niente sottigliezze; confondono soltanto. Se questo non significa mettere una spaventosa museruola all’operato dell’intelligence, allora non so cos’altro possa essere”.

L’intelligence non è soltanto imbrigliata: è anche manipolata – e la cosa continua ad esserlo. Gli esperti pensano che il recente scontro a fuoco lungo il confine tra la Siria e l’Iraq non abbia coinvolto come siamo stati indotti a credere Saddam Hussein o un membro della sua famiglia, ma semplicemente dei trafficanti iracheni di petrolio. Inoltre Patrick Lang, ex funzionario di spicco della Dia, ha dichiarato che molti nel governo pensano che quell’incursione sia stata un tentativo da parte di alcuni ideologi di mandare in malora la collaborazione tra Stati Uniti e Siria.

Se da un lato lo scandalo finora si è incentrato sull’Iraq, dall’altro le manipolazioni appaiono essere a tutto campo.. Per esempio una persona appartenente alla comunità dell’intelligence ricorda che qualcuno della linea dura dell’amministrazione intendeva sollecitare il Bureau of Intelligence and Research del Dipartimento di Stato a dichiarare che Cuba ha un programma per la messa a punto di armi biologiche. Le spie, però hanno rifiutato di fare una simile dichiarazione, e hanno avuto il supporto di Colin Powell.

E poi c’è la Corea del Nord: a partire dal dicembre 2001 le dichiarazioni della Cia in merito al programma di armamento nucleare della Corea del Nord sono andate facendosi improvvisamente più succose. Le affermazioni sempre più allarmiste (che non si basano su alcuna prova nuova) sono continuate fino al gennaio di quest’anno, quando la Casa Bianca ha voluto mettere in sordina la crisi con la Corea. Poi le affermazioni hanno bruscamente riportato in auge il linguaggio minaccioso degli anni Novanta.

Il numero appena uscito del Naval War College Review riporta le ambiguità del programma nucleare della Corea del Nord e ipotizza che le fonti americane abbiano “optato per utilizzare le intelligence a fini politici”. “C’è forse un parallelo con quello che sta attualmente accadendo, in merito alle valutazioni fatte sull’Iraq?” è stato chiesto all’autore dell’articolo, Jonathan Pollack, presidente del Strategic Research Department del Naval War College nel corso di un’intervista. “Penso che possano essercene” è stata la sua risposta.

Pertanto quelle severe parole del funzionario della Casa Bianca a me dirette erano vere: c’è qualcosa di più. Temo però che quanto più si allarga il quadro, tanto più rischi di sembrare uno schema di assoluta disonestà.

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