Da Corriere della Sera del 05/08/2003

Rognoni: basta attacchi ai magistrati. Ma chi vuole fare politica lasci la toga

Il vicepresidente del Csm: i giudici sono cittadini come gli altri, non hanno immunità

di Giovanni Bianconi

ROMA - Venerdì scorso, 1° agosto, Virginio Rognoni ha compiuto un anno da vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (eletto dall’unanimità dei «togati» e dai «laici» di centrosinistra) mentre il capo del governo andava in vacanza lamentandosi perché «i politici sono esposti alle incursioni di certa magistratura politica senza avere nessuna difesa», al contrario dei giudici che godrebbero di una completa immunità: «Nei tribunali c’è un 50 per cento di assoluzioni e un 50 per cento di condanne nei confronti dei cittadini, mentre il Csm produce solo un 5 per cento di condanne», accusa Berlusconi.

Che cosa risponde, presidente Rognoni?
«Che la verità è un’altra, e occorre contrastare con forza questa falsa rappresentazione di una magistratura blindata all’interno di una generalizzata immunità, mentre il mondo politico sarebbe senza difesa. I magistrati sono sottoposti alla giurisdizione ordinaria al pari di ogni cittadino; non godono di alcuna immunità, e l’azione penale può essere esercitata nei loro confronti senza alcun filtro preliminare analogo all’autorizzazione a procedere vigente fino al ’93 in favore dei parlamentari, o all’autorizzazione all’arresto e ad altri atti particolari, tuttora in vigore».

E sul Csm che condanna troppo poco?
«Dati alla mano, la giurisdizione disciplinare, che si aggiunge a quella penale, è amministrata in modo tutt’altro che "domestico". In un anno di lavoro la Sezione disciplinare del Csm ha emesso 41 pronunce di assoluzione e 25 di condanna: non il 5 per cento, dunque, ma il 34-35 per cento delle sentenze sono di condanna. Percentuale che sarebbe ancora maggiore se non ci fossero casi in cui l’incolpato si sottrae alla sanzione dimettendosi dall’ordine giudiziario. Il Csm non è affatto una cinghia di trasmissione corporativa della magistratura associata, né emette "sentenze già scritte"».

Eppure si può avere la sensazione di un Csm che difende a oltranza le toghe, come fosse l’ultimo baluardo di autonomia rispetto agli altri poteri.
«Il ruolo del Csm è quello disegnato dalla Costituzione e dalla legge istituiva del 1958. Forse oggi c’è una maggiore visibilità del Consiglio, che però è simmetrica alla maggiore visibilità di certi processi, con tutte le tensioni che essi portano nel dibattito civile del Paese sui rapporti tra politica e giustizia. Nell’autogoverno della magistratura, che comincia dalla professionalità e lealtà istituzionale del singolo magistrato, è certamente compresa anche la difesa dell’ordine giudiziario di fronte a indebite invasioni di campo. E la denigrazione della magistratura è essa stessa un’invasione di campo. Le parole sono pietre, e possono essere lanciate in maniera devastante perché provocano una spirale pericolosissima. I continui e generalizzati attacchi alla magistratura, con le inevitabili reazioni che ne conseguono, generano inquietudine, smarrimento e indignazione nella pubblica opinione».

Ma chi lancia quelle accuse, dal presidente del Consiglio al ministro della Giustizia, precisa ogni volta di riferirsi a «certi settori» della magistratura...
«Sarà, però è strano che questi settori finiscano via via per allargarsi sempre di più».

Secondo lei, davvero la magistratura non ha nulla da rimproverarsi?
«Nell’ultimo decennio si è detto, e non sempre a torto, che la magistratura abbia giocato una sorta di supplenza nei confronti della politica. Ed è certamente vero che il controllo di legalità, affidato ai giudici, si è enormemente esteso un po’ in tutti i Paesi occidentali. In questo quadro, si ha talvolta l’impressione che tutto ciò porti i magistrati ad assumere nei confronti della politica un atteggiamento di sufficienza, o quasi di sfida. Non è giusto che ciò avvenga, e se questo atteggiamento esiste è bene che venga intelligentemente abbandonato. Tra l’altro, esso tradisce paradossalmente vere e proprie pulsioni politiche che dovrebbero trovare collocazione nelle sedi e nei percorsi legittimi».

Sta dicendo che se un magistrato vuol fare politica deve accomodarsi fuori dalle aule di giustizia?
«Sto dicendo che può accadere, e accade, che un magistrato, come cittadino, senta l’interesse per la "polis", e scelga perciò di "entrare in politica". Abbiamo tanti esempi. Bene, se entra, non torni più a fare il giudice. Questa è la mia personalissima opinione».

Perché altrimenti non sarebbe più imparziale?
«Guardi, uno degli atti più significativi di questo anno al Csm è a mio avviso la risoluzione-delibera votata all'unanimità nel febbraio scorso, quando più aspro è stato l’attacco alla magistratura accusata di "politicizzazione". In quell’occasione abbiamo ribadito che ogni provvedimento giurisdizionale può essere oggetto di critica, anche dura, ma essa non può mai diventare motivo di generalizzata delegittimazione e denigrazione della magistratura. Allo stesso tempo, però, quella risoluzione ricordava che il giudice non solo dev’essere, ma deve anche apparire imparziale, pena un pericoloso deficit di credibilità dell’intero sistema. Di qui la personale opinione che le ho espresso».

Tornando allo scontro tra politica e giustizia, come pensa se ne possa uscire per restituire ai cittadini un po’ di fiducia nelle istituzioni?
«Garantendo la più completa agibilità dei circuiti costituzionali. E a questo proposito va ricordato che spetta alla "classe politica" stabilire in Parlamento le regole del processo. Si tratta di un primato indiscutibile, ma è anche indiscutibile che debbano poi essere i magistrati, nel rispetto di quelle regole, a iniziare i processi e chiuderli con la sentenza in un tempo ragionevole. Tutti i processi».

E come si rispettano i "circuiti istituzionali" di cui lei parla?
«C’è una frase che è giusto ripetere, anche se rischia di diventare rituale e perdere di significato: abbassare i toni da entrambe le parti. Ma non è un problema di "alto galateo istituzionale", bensì di far seguire a quelle parole dei comportamenti concreti. Da un lato, in Parlamento, con una legislazione non episodica, o di affannosa emergenza, bensì organica e generale; dall’altro, nei tribunali, con l’imparzialità più scrupolosa nell’esercizio del controllo di legalità. Se ciò non avviene prevale l’invettiva generalizzata, quella dei "magistrati militanti" contro i "politici affaristi", che non porta lontano. Su questi temi che toccano nel profondo i temi della convivenza civile, un’apposita sessione parlamentare straordinaria potrebbe forse essere utile. In particolare per una revisione organica del sistema della giustizia, allo scopo di coniugare i problemi dell’ordinamento giudiziario con quelli dell’efficienza dei meccanismi processuali».

A un anno dalla sua elezione, che bilancio traccia dell’attività del Csm?
«Direi positivo, si è lavorato molto. A parte la risoluzione cui ho accennato prima, penso sia stato importante il parere che abbiamo dato sul maxi-emendamento governativo sul disegno di legge relativo alla riforma dell’ordinamento giudiziario. E al di là della difesa dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici, resta il problema dell’efficienza dell’apparato giudiziario. Ecco perché abbiamo fatto della formazione del giudice, della sua professionalità e preparazione e delle scuole di formazione il nostro cavallo di battaglia».

Nemmeno una voce in rosso?
«Certamente ci sono obiettivi che devono essere ancora raggiunti, primo fra tutti una maggiore rapidità nella procedura di nomina per gli incarichi direttivi: passa ancora troppo tempo per la designazione di un procuratore o di un presidente di tribunale; le scelte sono delicate, ma devono essere più rapide. In questo settore credo che l’associazionismo della magistratura, che ha molti meriti e rispecchia nelle diverse correnti le varie posizioni culturali, mostri un po’ la corda; occorrono maggiore flessibilità e minori incrostazioni correntizie. Ma non sono poche le occasioni, anche recenti, di larghe convergenze trasversali».

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