Da Il Messaggero del 10/07/2003
Maputo, acqua da Roma e una scuola elementare per i bambini abbandonati
di Walter Veltroni
DA dove comincio? Da Felizminha, forse. Ha undici mesi, sua madre è morta di Aids, suo padre, semplicemente, non c’è. E’ sieropositiva, piccola come una virgola, piena di segni di infezioni. Sta sulle gambe di suo nonno, uno dei pochi anziani che sia dato di incontrare qui a Maputo, capitale di uno dei dieci paesi più poveri del mondo. O forse potrei iniziare da Teresa che non si chiama Teresa. Ha due anni, uno sguardo triste come quello di un animale perduto dal branco. E’ stata ritrovata dalla polizia nelle strade della città, sola. Sola, a due anni e senza nome, quello che tutti le danno lo ha scelto l’agente di turno. Teresa non parla, si guarda intorno, tende le braccia a cercare un po’ d’affetto. E’ una delle bimbe dell’orfanotrofio comunale. Il luogo degli ultimi, gli ultimi degli ultimi. Bambini, in un paese povero, soli. Qualcuno di loro è disabile, fisico o mentale. E’ stato trovato in una discarica, in mezzo ai resti di cartoni. Oppure è meglio parlare degli occhi e delle braccia di quel bambino muto, incapace di sorridere, che giace in un letto grande in un ospedale per malati di Aids e di malaria. L’Africa è questa enciclopedia del dolore. Bisogna vederla con i propri occhi. Bisogna crudelmente pensare che quel bambino potrebbe essere tuo figlio. Il mondo è una lotteria che fa vincitori e vinti. I vincitori si gingillano in una vita esagerata tanto che, dicono i giornali, il 56% dei bambini fino a undici anni ha un telefono cellulare e da esso, dicono preoccupati i pediatri, sembra dipendere psicologicamente. Gli sconfitti sono questa umanità senza cibo e medicine, che cerca nell’immondizia degli altri i mezzi e il modo per sopravvivere. Vincitori e vinti, una lotteria spietata. In palio c’è anche la durata della vita di ciascuno. I vinti vivono male e, per sovrapprezzo, vivono la metà dei vincitori. I vincitori, non contenti della loro fortuna, vogliono prenderli a cannonate, i vinti. Ma l’Africa non è solo dolore, è anche speranza. Non solo quella racchiusa nella incredibile energia e allegria di esseri umani costretti a vivere come nessuno di noi mai accetterebbe di fare. Camminano per chilometri, vivono in case fatte di canne e paglia, non hanno luce né acqua, né scuole. Il tempo della loro giornata è cercare da mangiare e tutto questo lo vivono con una normalità che appare eticamente enorme. Ma l’Africa è speranza, persino sogno, quando non è sola. Perché Felizminha, in braccio al nonno, sopravviverà al suo Aids. La incontro in un ”centro nutrizionale”, gestito dalla Comunità di Sant’Egidio. Baracca in un quartiere di baracche, il centro è il paradiso per centinaia di bambini. Sono in fila, disciplinati, la mattina, a pranzo, a cena. Entrano, si lavano le mani poi si siedono per terra a mangiare il cibo che dei bambini più grandi danno loro. E lì qualcuno della comunità li cura, con amore. E qualcuno, una ragazza venuta da Roma, farà vivere il bambino dell’ospedale che quando entrò sembrava ormai prossimo alla morte. Sant’Egidio fa vivere un progetto, che ha chiamato ”Dream”, con il quale fa il test a migliaia di persone. Le convince a curarsi, somministra loro gratuitamente quei farmaci antiretrovirali che le grandi multinazionali farmaceutiche vogliono negare ai poveri del mondo. Un pezzo di Roma è li, tra quelle baracche, nel cibo e nei farmaci. E’ nella sensazione di essere vivi, utili, delle decine di maestre, avvocati, dipendenti comunali che vengono qui a fare le ferie. E tornano a casa con il cuore più grande. Non sono eroi. Hanno solo trovato il modo giusto di vivere la vita e di essere sereni. Ma Roma è anche nell’acqua che scorre dai pozzi che si aprono a Guava, sobborgo di migliaia di anime vicino a Maputo. E’ festa. Il responsabile dell’acqua dice: «Oggi siamo allegri». Grazie a Roma potranno lavarsi, potranno evitare malattie che provengono dall’inquinamento, potranno dar acqua alle loro piante, ai loro campi. E Roma ascolterà, ancora una volta, chi soffre e risponderà positivamente a questa bambina con gli occhi grandi che legge una lettera ai bambini romani: «Siamo bravi studenti, ma abbiamo molte difficoltà, ci manca il materiale per studiare; i nostri genitori non hanno lavoro; non abbiamo vestiti... Quando piove non possiamo studiare perché l’acqua entra nelle classi. Ci sediamo per terra». Ho visto la loro aula di paglia e lamiera che d’estate si infuoca. Buia, senza banchi né sedie. I bambini sono seduti per terra. La costruirà Roma, la scuola per i bambini di Guava. Non necessariamente con i soldi del suo bilancio che servono a migliorare, come stiamo facendo, la vita della nostra comunità. Ma con ciò che raccoglieremo. Tutti. Il sindaco e i ragazzi di tante scuole romane per i quali un euro è poco. E quando apriremo la scuola a Guava verranno qui anche i ragazzi romani, a vedere come è bella la felicità degli altri. La scuola si chiamerà Roma. E in quell’angolo del mondo il nome della nostra città sarà associato all’“allegria” dell’acqua che scorre, all’operatività generosa dei volontari di Sant’Egidio o Movimondo, alla luce che arriverà sui banchi di quei ragazzi. Anche così si è una grande città. Conta il Pil, certo. Ma conta anche che grazie a Roma e ai romani Felizminha sarà viva.
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