Da La Stampa del 18/06/2003

Storia di Honoria «miracolo» ripetibile della guerra all’Aids

Nel Mozambico colpito dalla terribile malattia la donna si è imbattuta nel progetto della Comunità di Sant’Egidio che offre terapie gratuite

di Domenico Quirico

HONORIA ha un’aureola di timida grazia come accade alle persone che soffocano una sofferenza o dominano un dolore fisico per cui sanno che non c’è rimedio. Honoria è guarita dall'Aids. E' vero, il Grande Male è, per ora, una irrimediabile iniquità; al massimo ti concede dilazioni, sonnecchia subdolo e feroce, incombe. Eppure, qui in Africa dove milioni di persone sono inghiottite dal gorgo oscuro dell’epidemia, dobbiamo abituarci a pensare che le parole «malattia, guarigione, dolore, speranza» hanno significati diversi. Questa ragazza ha ventisette anni, è mozambicana e solo per questo era condannata a morte come buona parte della sua generazione. La condanna l'hanno firmata le liturgie criminali dei governi di questo continente che, impegnati a scannarsi e a rubare, regalano sei dollari l’anno per la salute delle loro comunità; e i loschi interessi e le tirchierie della comunità internazionale. E ognuno dei due si fa forte della colpa dell’altro per commetterne ancora. In attesa che la scienza compia il miracolo del vaccino e la carità delle grandi case farmaceutiche si rassegni al «prezzo politico» dei medicinali per la terapia antiretrovirale che blocca il precipitare del male un’intera generazione di africani viene sacrificata consapevolmente, allargando le braccia per la rassegnazione. Un tesoro di intelligenze e di sogni, di energie e di speranze indispensabile per un continente già così misero che niente potrà reintegrare, sostituire. A Maputo basta andare al cimitero centrale per rendersi conto dell’entità di quest’apocalisse. Un’ala intera, immensa, è riservata ai bambini. Sono piccole tombe rettangolari, in file interminabili; fino a ieri si concedeva a ognuno un tumulo in cemento, ora frettolosamente si limitano a una montagnola regolare di terra. Chi viene al funerale, sempre così austero, raccolto, poco africano, porta con sé un mazzolino di fiori, lo pianta sulla tomba che si trasforma per qualche ora in una effimera aiuola. Una buona parte di quei bambini, anche se le statistiche sono piene di cautele e di omissioni, appartengono alla generazione perduta dell’Aids. Tra quelle tombe c’è anche la bambina di Honoria. Aveva tre anni quando ha cominciato a stare male come se una tosse e una febbre misteriosa la facessero appassire. «E' la malaria», hanno detto i medici alla madre, imbarazzati, allargando le braccia quando è spirata dopo poche settimane. E' stato allora che Honoria ha capito che il Grande Male era entrato nella sua vita e non l’avrebbe più lasciata. Il marito lavorava in Sud Africa e a Maputo si sussurra che la maledizione se la portano dietro proprio i minatori insieme ai rand necessari per sopravvivere. Honoria tossiva, dimagriva a vista d’occhio, sul ginocchio si è aperta una ferita che non guariva e le ha trasformato la gamba in una piaga. «E’ malaria», «è tubercolosi», le dicevano dall’ospedale e la guardavano con gli stessi occhi di quando aveva portato la bambina. Il marito l'ha abbandonata e lei è tornata nella grande famiglia di sua madre e delle sue cinque sorelle, la grande famiglia africana che raccoglie sempre e protegge anche i suoi figli perduti. In ospedale hanno deciso che le avrebbero amputato la gamba, ma un medico indifferente vicino al suo letto ha gridato: «Lasciate stare, non perdiamo tempo. Non vedete che sta crepando di Aids?» Il giorno in cui ha iniziato a morire in quel letto di un ospedale per tubercolotici, dove per utilizzare la bombola dell’ossigeno bisogna aspettare che un altro paziente muoia, Honoria pesava trentun chili. Honoria è viva perché si é imbattuta nell’unica possibilità concessa oggi in Mozambico a chi è povero, il progetto «Dream» della Comunità di Sant’Egidio che fornisce gratuitamente la terapia antiretrovirale. Uno dei medici volontari che dirigono il progetto ha rifiutato di accettare la condanna a morte di Honoria. I farmaci hanno fatto il miracolo: il valore del CD4, che era 179, ora è salito a 450, la carica virale da ventimila è precipitata sotto 150, il limite che la macchina per l’analisi non misura più. Oggi Honoria pesa sessanta chili, cammina perché la ferita alla gamba si è rimarginata. La sua casa è in un quartiere periferico, un grande favo di casupole dai tetti piatti color bruno grigiastro e strette viuzze sporche e disordinate. Accudisce i figli delle sorelle sotto un grande albero di mango che presidia, indifferente, i dolori e le miserie degli uomini. Ritrovare la speranza qui equivale a guarire. Racconta il suo dramma con grandi sorsate di parole, mescolando il riso e il pianto, passandosi tra le mani le fotografie scattate all’ospedale tanti mesi fa quando il Grande Male stava vincendo. Ebbene, quello di Honoria è un miracolo ripetibile. La Comunità punta a replicare il programma di terapia di massa anche nel resto del Mozambico, legandosi alle strutture dei missionari, avviando il controllo e la cura di alcune categorie chiave della società come il personale sanitario e i maestri. Progetti analoghi stanno per essere avviati in Malawi e in Guinea Bissau. Si cercano fondi finora assicurati da una catena della solidarietà in cui la cifra maggiore è arrivata dalla fondazione bancaria di Unicredito. Anche l’Associazione delle Industrie Farmaceutiche italiane contribuisce pagando l’attività di due ricercatori. Il contagio della speranza può crescere. Ieri è arrivata, dopo una lunga trattativa, la conferma che la Comunità attendeva con ansia: tre dei maggiori gruppi farmaceutici del mondo - Glaxo, Boehringer e Merck - sono disponibili a cedere il principo attivo per la terapia antiretrovirale. E' un annuncio di una grande vittoria, è caduto il muro che finora ha fatto della cura dell’Aids un privilegio dei Paesi ricchi e una maledizione per i poveri. L’associazione dei malati di Aids a Maputo, un’altra faccia di questa volontà di cominciare a sperare, di spezzare la catena della rassegnazione, non sa ancora che le possibilità di vincere la sfida sono da ieri aumentate. L'hanno fondata cinque malati che hanno unito la loro disperazione nelle corsie dell’ospedale di Maputo. Volevano insegnare a chi si trovava nelle loro condizioni che si può continuare a vivere, che si può reagire alla disperazione e, ai giovani, come evitare il contagio. Hanno formato un gruppo teatrale che è diventato famoso in tutto il Mozambico, con piccole attività artigianali aiutano chi è in difficoltà e danno cibo agli orfani dell’Aids. Il governo non dà loro un soldo, gli aiuti arrivano da alcune organizzazioni non governative internazionali. Erminia ti accoglie nella loro sede con un grande sorriso: «Considero ogni giorno che passa come una vittoria. Anche se so che la morte per me è sempre una realtà con cui devo convivere». Se le chiedi se si sente felice, dapprima scansa la domanda con un silenzio, poi risponde: «Certo che sono felice. Mi guardo, sono viva e sono felice!»

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