Da La Stampa del 15/06/2003

In Mozambico dopo la pace la guerra all’Aids

Per arginare l’epidemia il governo ha convocato i «curandeiros», gli stregoni che affrontano la malattia con le erbe

di Domenico Quirico

Il governo del Mozambico ha convocato i «curandeiros». Un paese così misero da non poter offrire al 60 per cento dei suoi cittadini nessun aiuto sanitario contro la lotteria di malattie e di pestilenze che li affliggono, non può certo permettersi il lusso di fare a meno della medicina tradizionale e di liquidarla sbrigativamente come stregoneria. I curandeiros, uomini e donne, vecchi e giovani, sono arrivati all’ufficio governativo, puntuali, da tutte le immense bidonvilles di Maputo, che qui chiamano con un notevole senso delle sfumature «città di canne», portandosi dietro i loro secolari segreti impastati di erbe e radici e di più oscuri traffici con la magia. I funzionari hanno subito affrontato il problema. Sanno bene che molti dei loro pazienti chiedono di salvarli dalla maledizione chiamata Aids, e li ringraziano della collaborazione. Con una raccomandazione: non usare sempre la stessa lama per praticare i tagli necessari a inserire nella pelle i loro vegetali rimedi. Gli altri «curandeiros», quelli che usano provette e siringhe, infatti hanno scoperto che la malattia, subdola, ne approfitta per moltiplicarsi e trovare nuove vittime. Gli stregoni hanno ascoltato pazienti, qualcuno ha scosso la testa; poi sono tornati nei loro sobborghi dove li aspettavano file di pazienti sempre più disperati ed inquieti. L’Aids in Africa è un problema che suscita più passioni che riflessione. Ci si accusa con veemenza, ci si difende con parzialità. Si dicono sciocchezze con autorevolezza. La realtà sono gli stregoni, gli ospedali che assomigliano a relitti, le medicine che nessuno ha i soldi per comperare, il disinteresse. E’ un’equazione aritmeticamente semplice. Ci sono più di 25 milioni di infettati. Tra quindici anni nazioni intere come lo Zimbabwe e il Malawi saranno spazzate via dall’implacabile determinismo della malattia. Torneranno ad essere spazi senza uomini. Mentre in Occidente, arginato dai farmaci, il bilancio dei morti si assottiglia, qui lievita, incrementato da guerre tascabili ma feroci, appoggiato da alleati efficacissimi come la fame, la malaria, il colera. Eppure il Mozambico è un caso a parte; è l’altra Africa che si svincola da questo continentale disastro. Solo una tribù di colonialisti famelici come i portoghesi poteva rifiutarsi di abbandonarlo quando gli imperi che si dividevano il mondo con squadra e compasso erano ormai fuori moda. Qui ha tentato i suoi esperimenti sconclusionati il socialismo africano che piaceva molto a un certo Occidente più attratto dal pittoresco degli stracci che dal bene dei sudditi. La guerra civile che ne è nata è stata un’antologia degli orrori. Poi è accaduto uno di quei colpi di scena di cui la Storia è maestra. Mentre a due passi ci si sgozza con accanimento, a Maputo i vecchi nemici siedono fianco a fianco in parlamento. Borbottano, litigano ma nessuno pensa al kalashnikov per dire l’ultima parola. Si vota con regolarità e passione e il presidente in un continente abituato ai leader a vita ha già annunciato che alla fine del suo mandato non si ripresenterà. L’Aids non ha naturalmente risparmiato il Mozambico: un bambino su cinque nasce sieropositivo, gli infettati sono più del 15 per cento della popolazione. Ma queste sono le statistiche ufficiali che praticano un indispensabile ottimismo visto che fino a due anni fa per il governo la malattia non esisteva. Di fronte a questa nuova tragedia il cammino della ex colonia portoghese si è di nuovo incrociato con quello della romana Comunità di Sant’Egidio, quarantamila pazienti, caparbie, coraggiose persone impegnate in tutti i continenti a medicare conflitti con cui la diplomazia ufficiale non si sporca le mani, a erigere barricate contro la povertà e la pena di morte. Dodici anni fa la comunità riuscì a indurre i nemici della guerra civile ad abbracciarsi a Roma. Il segreto del successo era tutto in elementi umili: la pazienza, il calarsi nella realtà locale, il trovare soluzioni nuove. Un modello (qualcuno ha detto un miracolo) replicabile. L’indirizzo della speranza è a Machave nella periferia di Maputo, in un piccolo, lindo centro sanitario all’ombra diroccata di un grande ospedale che tenta di curare la tubercolosi senza materiale sanitario e senza bombole di ossigeno. Dal marzo del 2002 qui si sperimenta con successo la prima terapia di massa contro l’Aids tentata in Africa. Una rivoluzione rispetto alla rassegnata pratica della prevenzione che sacrifica all’epidemia un’intera generazione di africani. Chi si presenta al centro è subito sottoposto al test: i campioni vengono analizzati nel laboratorio di biologia molecolare, l’unico di tutta l’Africa australe che lavora gratuitamente, realizzato dalla comunità nell’ospedale centrale della capitale. Poi inizia la terapia antiretrovirale. I farmaci arrivano dall’India dove sono prodotti fuori dal cappio del brevetto imposto dalle multinazionali. La terapia infatti costa 500 dollari l’anno contro i 15 mila dei Paesi ricchi. Si cerca a casa chi ha interrotto la cura, si confortano gli esitanti. Nessuno è abbandonato anche i casi più disperati. L’Aids in Africa è molto più complicato che nei Paesi ricchi, bisogna combattere anche i suoi alleti, la denutrizione, le anemie, le infezioni. Per questo la terapia si arricchisce di cibo per il sostegno alimentare e di altri farmaci. Il sussurro in questo anno a Maputo è diventato un rumore forte: «All’ospedale di Sant’Egidio si può sopravvivere alla grande malattia, i malati riprendono forza, tornano a vivere normalmente». La fila per i test si allunga. Si attenuano anche paure e pudori in un continente che considera l’Aids causato sempre da forze magiche e oscure. Sant’Egidio, forse ha acceso un’altra scintilla.

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