Da Corriere della Sera del 09/08/2003
ELZEVIRO/Travolti dal polipropilene
C’è un futuro per noi il suo nome è plastica
di Sandro Veronesi
«Voglio dirti solo una parola, ragazzo. Solo una parola». «Sì, signore». «Mi ascolti?». «Sì, signore». «Plastica». Pausa. «Credo di non avere capito, signore». «Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica». Il ragazzo in questione è Dustin Hoffman e il dialogo viene dal film Il laureato , di Mike Nichols. La scena risulta molto comica, soprattutto per l'espressione inebetita con cui Dustin Hoffman (con un boccaglio in bocca, se non ricordo male) incassa la dritta dell'amico del padre ma, col senno di poi, è da considerarsi molto significativa. Era il 1967. Quattro anni prima, il 12 dicembre del 1963, Giulio Natta aveva ricevuto dalle mani del re di Svezia il Premio Nobel per la chimica, insieme con Ziegler, per le scoperte importantissime fatte nel campo dei materiali plastici, segnatamente l'invenzione del polipropilene. Verrebbe da pensare, dunque, che il personaggio che pronuncia quelle parole a Dustin Hoffman fosse un uomo illuminato, un antesignano, mentre invece così non è: si tratta di un vero farlocco e questo suona strano. In questa stranezza è contenuto il paradosso della plastica compiutosi negli ultimi quarant'anni e forse vale la pena cercare di spiegarsela. Dunque. Natta vince il Nobel per la chimica nel 1963 per avere inventato il polipropilene, cioè un materiale plastico dalle proprietà formidabili. Questa scoperta, e la raffica di brevetti che ne è conseguita, autorizzava chiunque a dichiarare che il futuro era nella plastica. Di sicuro lo potevano dire alla Montecatini, la società che ha commercializzato i brevetti di Natta, producendo materiali «intelligenti» come il Moplen che rivoluzionavano il rapporto costo/tempo di sfruttamento per una quantità di oggetti di uso domestico. Eppure il tempo ci ha dimostrato che il farlocco del Laureato non si riferiva a questo. Si riferiva piuttosto a un uso «deficiente» della plastica, che pure ha prevalso, arricchendo migliaia di farlocchi come lui: la plastica intesa come materiale vile, a bassissimo costo di produzione e destinato a usi effimeri. Ecco dunque che una delle più importanti scoperte del XX secolo viene immediatamente degradata dall'industria alle funzioni più ignobili per via di una sola delle sue molte proprietà. Perché è vero, la plastica costa poco e meno nobile è meno costa; ma è anche vero che la plastica, qualsiasi plastica, ha la capacità di mantenere intatte le proprie caratteristiche per decenni; che è impermeabile; che può essere stampata in qualsiasi forma; che è leggera, infrangibile, elastica, eccetera eccetera. Tutte insieme queste proprietà fanno della plastica un supermateriale e noi, a quarant'anni dal Nobel di Natta, come ce ne serviamo?
Per farci miliardi di bottiglie di acqua minerale. Miliardi di sacchetti del supermercato. Miliardi di sacchetti dell’immondizia, di tappi, di bicchieri monouso. È questo il futuro cui si riferiva il farlocco nel Laureato , perché è questo che, già nel 1967, stava accadendo in America. Plastica per avvolgere i cadaveri. Per contenere i cibi precotti. Per imballare merci molto meno preziose. Plastica, in altre parole, prodotta per essere usata pochi minuti e poi essere buttata via. Col risultato che oggi, a quarant’anni dal Nobel a Natta, stiamo letteralmente affogando nei rifiuti plastici. Quattro milioni di tonnellate all’anno solo in Italia, che corrispondono a un volume colossale, perché ce ne vogliono parecchi, di sacchetti del supermercato, per fare un chilo. Da cui l'ultimo paradosso: la plastica non è amata, come non erano amati i pitali quando si usava tenerli dentro al comodino. E' considerata sporca, antiestetica e inquinante. Hah.
Dice: c'è il riciclo. Certo, dal momento che un'altra delle formidabili proprietà della plastica è l'essere riciclabile al cento per cento. Il riciclo, come no. Quando vedremo due o tre stabilimenti per il riciclo dei materiali plastici in ogni provincia italiana ci crederemo: per ora, dati alla mano, sappiamo che il riciclo non investe nemmeno un quinto dei rifiuti plastici prodotti e quindi siamo autorizzati a pensare che la plastica buttata via, e separata dal resto dei rifiuti con la raccolta differenziata, alla fine viene per quattro quinti interrata o addirittura bruciata come tutti gli altri rifiuti.
Così, in questa estate di caldo africano beviamo litri e litri di acqua ogni giorno e quando l'acqua è finita buttiamo via il miracolo chimico che la conteneva, che rimarrà così come lo lasciamo per circa duecento anni, e non ce ne rendiamo nemmeno conto. Poi, viaggiando in macchina per le campagne, capita di osservare una cosa bizzarra: negli orti, in cima ai tralicci di canne che sorreggono le piante di pomodoro, vediamo delle bottiglie di plastica rovesciate. Ci si ferma e ci si mette a cercare la spiegazione di questa apparente incongruenza. Che è semplice: quelle bottiglie infilate nella canna la proteggono. Entrando attraverso il buco all’estremità, l'acqua marcirebbe la canna piuttosto in fretta, mentre così, protetto da un oggetto in plastica buttato via a tonnellate, il traliccio di bambù dura molto di più. C'è un'industria su questo? No. C'è un’industria sulla plastica prodotta per farne sacchetti dell'immondizia? Sì. Trovare l'errore.
Per farci miliardi di bottiglie di acqua minerale. Miliardi di sacchetti del supermercato. Miliardi di sacchetti dell’immondizia, di tappi, di bicchieri monouso. È questo il futuro cui si riferiva il farlocco nel Laureato , perché è questo che, già nel 1967, stava accadendo in America. Plastica per avvolgere i cadaveri. Per contenere i cibi precotti. Per imballare merci molto meno preziose. Plastica, in altre parole, prodotta per essere usata pochi minuti e poi essere buttata via. Col risultato che oggi, a quarant’anni dal Nobel a Natta, stiamo letteralmente affogando nei rifiuti plastici. Quattro milioni di tonnellate all’anno solo in Italia, che corrispondono a un volume colossale, perché ce ne vogliono parecchi, di sacchetti del supermercato, per fare un chilo. Da cui l'ultimo paradosso: la plastica non è amata, come non erano amati i pitali quando si usava tenerli dentro al comodino. E' considerata sporca, antiestetica e inquinante. Hah.
Dice: c'è il riciclo. Certo, dal momento che un'altra delle formidabili proprietà della plastica è l'essere riciclabile al cento per cento. Il riciclo, come no. Quando vedremo due o tre stabilimenti per il riciclo dei materiali plastici in ogni provincia italiana ci crederemo: per ora, dati alla mano, sappiamo che il riciclo non investe nemmeno un quinto dei rifiuti plastici prodotti e quindi siamo autorizzati a pensare che la plastica buttata via, e separata dal resto dei rifiuti con la raccolta differenziata, alla fine viene per quattro quinti interrata o addirittura bruciata come tutti gli altri rifiuti.
Così, in questa estate di caldo africano beviamo litri e litri di acqua ogni giorno e quando l'acqua è finita buttiamo via il miracolo chimico che la conteneva, che rimarrà così come lo lasciamo per circa duecento anni, e non ce ne rendiamo nemmeno conto. Poi, viaggiando in macchina per le campagne, capita di osservare una cosa bizzarra: negli orti, in cima ai tralicci di canne che sorreggono le piante di pomodoro, vediamo delle bottiglie di plastica rovesciate. Ci si ferma e ci si mette a cercare la spiegazione di questa apparente incongruenza. Che è semplice: quelle bottiglie infilate nella canna la proteggono. Entrando attraverso il buco all’estremità, l'acqua marcirebbe la canna piuttosto in fretta, mentre così, protetto da un oggetto in plastica buttato via a tonnellate, il traliccio di bambù dura molto di più. C'è un'industria su questo? No. C'è un’industria sulla plastica prodotta per farne sacchetti dell'immondizia? Sì. Trovare l'errore.
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