Da Il Manifesto del 08/08/2003

Il teorema

di Ida Dominijanni

Ognun dal proprio cuor l'altrui misura, diceva qualcuno. Anche l'onorevole Sandro Bondi ha un cuore, e il cuore gli dice che che i giudici di Milano hanno ragione, quando sottolineano che il cosiddetto processo Previti è in primo luogo un processo contro altri giudici del «porto delle nebbie» romano, rei di aver degradato la giustizia a uso privato vendendo sentenze. Giudici sovversivi, a loro modo, al servizio del partito-azienda di cui Bondi è portavoce. Nulla di meglio dunque per il nostro che ribaltare la colpa in aggressione, e annunciare un'inchiesta parlamentare contro le solite toghe rosse, ree di aver costituito nientemeno che un'associazione a delinquere a fini sovversivi contro le istituzioni democratiche. In psicoanalisi si chiama proiezione. In politica è la recita dell'assurdo a cui siamo periodicamente costretti. Non senza scandalo tuttavia, malgrado il numero delle repliche. Per quanto prevedibile, la reazione forzista alle motivazioni della sentenza Imi Sir-lodo Mondadori ha qualcosa del teatro dell'assurdo che non può sfondare nell'opinione pubblica. L'invocazione del complotto ai danni del sovrano, o peggio, il ricorso fuori contesto all'anatema craxiano «tutti corrotti, tutti innocenti», franano di fronte alla foto di gruppo del partito anti-magistratura che inciampa proprio sulla corruzione di alcuni magistrati. C'è del paranoico, non solo del marcio in Danimarca: si inventano una magistratura sovversiva e di parte, perché sanno di avere usato alcuni magistrati a scopo sovversivo per la propria parte. E continueranno a inventarsela, perché Bondi passa, bacchettato per eccesso di fantasiosità anche dai suoi alleati, ma il teorema resta. Il teorema dice che chi è eletto dal popolo è intoccabile dalla legge e dai giudici e se i giudici non lo rispettano sono sovversivi. E il teorema per giunta si è fatto prima impero economico, grazie al lodo Mondadori, poi legge dello stato, grazie al lodo Schifani (Ciampi).

Questo per dire che di replica in replica la stagione è cambiata, non siamo più all'inizio degli anni novanta ma nel 2003, e per quanto le radici del berlusconismo affondino nei paradossi dell'infelice inizio della transizione italiana il punto oggi è un altro. Non è in questione, ammesso e non concesso che lo sia mai stato, un duello fra giudici e politici, ma l'assetto costituzionale dei poteri e della democrazia. Non è in questione la corruzione e l'illegalità, ma una forma di governo che ha messo a profitto corruzione e illegalità per partorire uno stato patrimoniale organicamente e perfino legalmente (si tenga a mente la legge Gasparri) basato sull'interesse privato. A noi questa parrebbe materia politica, non giudiziaria, e di lotta politica, non giustizialista. All'opposizione no, perché le sentenze non si commentano, perché non è sul piano giudiziario ma sul piano politico che Berlusconi va sconfitto, perché la maggioranza è talmente brava a farsi del male da sola che tanto vale lasciarla cadere da sola. O forse perché tanto brucia aver delegato in passato l'azione politica alla magistratura, da aver paura di ripetere l'errore?

Senonché è proprio col silenzio che oggi quell'errore si ripete. A sinistra la politica latitò ai tempi di Tangentopoli, quando puntò troppe chance sul processo giudiziario a scapito del giudizio politico e storico, come latita oggi, evitando di commentare non le sentenze, che è giusto, ma i fili della politica, dell'economia e dell'antropologia nazionale che legano la corruzione dei giudici Metta e Squillante e il ridisegno del potere economico e politico dell'Italia del 2000 - paese per giunta in acclarato e malinconico declino. Quei fili ci sono, e non basteranno i trenta giorni della campagna elettorale del 2006 a farne materia di discorso pubblico. Delle sentenze è bene tacere, ma di qualcosa la politica deve pur parlare, salvo ridurre la rivendicazione del suo primato a un ritornello stonato e stucchevole.

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