Da Corriere della Sera del 19/08/2003

Scuola di democrazia tra i saccheggi

Guerriglia e scoperta della libertà, i due volti del nuovo Iraq

di Gianni Riotta

BAGDAD - Chi governa l' Iraq stanotte, mentre il sergente Karns e i suoi Scout del 135° fanteria pattugliano i quartieri più poveri, dietro il posto di blocco «Porta degli assassini»? Governa lui, Karns, ingabbiato nel giubbetto antiproiettile nell' afa dei 61 gradi percepiti sotto l' elmetto? Governa l' esercito Usa, dal ragazzino Tim che a 18 anni vuol sposare la ragazza rimasta in patria, su su fino al generale Ricardo Sanchez? Sembrerebbe di sì, stanotte. Bagdad è al buio, manca l' elettricità. Nelle case, su stuoie logore, le famiglie si accalcano, alla luce stenta di un lume a petrolio. Una sola trattoria aperta, illuminata dalla brace per il kebab. I passanti salutano la pattuglia, i bambini si fanno incontro festanti: «Mister America good, Mister America friend». Da un tugurio un uomo si avvicina circospetto all' interprete arabo di Karns: «Jubbar minaccia i tecnici della luce. Vengono per riparare la rete e lui intima: se non sabotate vi ammazzo come cani. Ha un mitra e ci dice che chi lo denuncia è morto». Karns dà la caccia a Jubbar da giorni. «Ma non so chi sia. Uno del Baath, l' ex partito di Saddam Hussein? Un islamico venuto qui per la guerriglia? O il duro di una gang criminale che ruba i cavi dell' alta tensione, per fonderli in lingotti di rame e venderli in Siria? A Mosul, al Nord, ne hanno fregati per 500 chilometri». Per prendere Jubbar, Karns nasconde due uomini su un tetto, ma è scettico: «Avrà le sue spie». La pattuglia va nelle tenebre, le stelle di Cassiopea brillanti nel coprifuoco, dalle 23 alle 4.

Un ragazzino punta il laser giocattolo contro i soldati e Karns fa tradurre alla madre: «Glielo tolga. Le armi sono munite di laser rossi e se un soldato inesperto si spaventa sono guai». Gli Scout stendono la rete per Jubbar e c' è tempo per carezzare un cucciolo, sbucato da un cunicolo pesto. Di botto torna la luce, va e viene cinque volte al giorno e dalle case scoppia l' applauso, come fosse merito della pattuglia. Non c' è odio nell' aria calda. Bagdad allora ha un futuro, allora i soldati, il governatore civile americano Paul Bremer, il suo governo provvisorio alleato e il Consiglio di governo iracheno stanno pacificando questo Paese poco più grande della Germania, con 25 milioni di cittadini, 60 per cento musulmani sciiti, 18 per cento sunniti, poi curdi e cristiani? All' alba Karns riporta la squadra, e il cronista ospite, alla Porta degli assassini, sui tre blindati con la mitragliatrice in torretta. I soldati pungolano Tim: «Dai, chiedi al mister se devi sposarti», per loro una notte in meno nell' anno da passare in guerra. Perché il bollettino che Karns ascolta in caserma è di guerra. Un attacco con due mortai al carcere di Abu Graib, periferia di Bagdad, morti e feriti. Due fanti americani vittime di un agguato fuori da un caffè. L' acquedotto sabotato con l' esplosivo in città, 300 mila senza acqua. A nord, a Kirkuk, salta l' oleodotto: «7 milioni di dollari al giorno in fumo», commenta Bremer (poco meno di 8 milioni di euro). Un militare della coalizione, danese, ucciso. Violenze a Bassora. Ovunque sparatorie, attentati, raid. «Guerra a bassa intensità», la definisce il generale Sanchez al comando, «ma quando beccano te è sempre alta intensità», scherza macabro Tim, e prende scappellotti dagli anziani. In Iraq comanda allora il caos? A quattro mesi dalla caduta del regime Baath gli alleati non hanno saputo ripristinare l' ordine. Gli edifici bombardati in guerra sono pochissimi, le stolide sagome dei ministeri e qualche centro di telecomunicazioni. Tutti i gusci vuoti, anneriti dalle fiamme, sono stati saccheggiati nel corso dei disordini dopo la caduta della città. Le gang dei ladri, Ali Baba li chiamano, imperano da Falluja, a metà strada con la Giordania, fino a pochi metri dal palazzo di Bremer, protetto da cavalli di Frisia. A Sadoun Street le vedete scambiare mazzette di dinari iracheni (1.700 per un dollaro), trattare il prezzo di una Mercedes rubata, pulire un mitra Ak-47. La coda per la benzina dura ore, ma i ragazzini della borsa nera fanno il pieno a chi paga dieci volte di più. L' imam Amir Ahmed, della moschea al Kobanji, non ha più voce per lamentare: «Rubano tutto. Vanno dai genitori: o mi date soldi o domani rapiremo vostra figlia. Riscatto in dinari per i poveri, in dollari per i benestanti.

La gente ha paura a venire alla preghiera del venerdì, resta a casa». All' altro capo della città, dietro il Mercato Vecchio, il padre cattolico caldeo Nadeer Dakko è d' accordo: «Avevo 300 bambini al catechismo, le mamme non li mandano più, terrorizzate. Il parroco egiziano ha autorizzato il sacrestano a comprare un fucile contro le gang e gli americani lo hanno arrestato. La mia chiesa è stata perquisita sette volte in cerca di armi. Guardi, hanno stracciato la foto del vescovo perché ripreso accanto a Saddam. Ma i ladri non li sanno acciuffare e l' energia elettrica non la sanno ripristinare». Allora il dominio militare del sergente Karns e degli Scout è effimero? Allora la guerriglia e le gang criminali stringono Bagdad in pugno e ogni discorso di libertà seguito alla caduta di Saddam Hussein si riduce a propaganda? Di buon mattino, davanti al filo spinato del palazzo di governo si raccoglie una folla di tuniche arabe, che agita striscioni e grida slogan. Sono attivisti del Movimento Disoccupati Organizzati, guidati dal paffuto Mohammad, chiedono un posto.

«Parliamoci chiaro - grida Mohammad nel megafono anni ' 60 -: i senza lavoro in America prendono 600 dollari al mese di sussidio. Anche noi ne abbiamo diritto. Torneremo ogni giorno. Bremer ci ha promesso lavoro». Diritto? E' questa la parola magica che sale nella calura, in un Paese in cui il solo diritto era l' umore di Saddam? Sì, i disoccupati chiedono lavoro non più per wasta, la raccomandazione clientelare che unisce famiglia, tribù e politici in un' avvilente rete. Per diritto. Al di là dei carri armati, della guerriglia, del ventilatore fermo e degli Ali Baba, Bagdad scopre la libertà primitiva. Da ogni edificio sventola la bandiera di un partito, da quelli ufficiali, arrivati dall' esilio per formare il Consiglio di governo, il Dawa Islamico di Ibrahim Jafari, il Congresso nazionale del discusso Ahmed Chalabi, uomo del Pentagono, i curdi di Massoud Barzani e i rivali di Jalal Talabani, ai movimenti spontanei. I Verdi iracheni con Khutir al Jasim chiedono «la fine dell' inquinamento», mentre il Partito della gioventù ha in programma «l' eliminazione di ogni fanatismo, politico o religioso e la proclamazione della libertà assoluta». Due re pretendono il trono. Steven Moore, un volontario americano in sandali, tiene seminari «su come si organizza un partito: io sono vicino ai repubblicani, ma non siamo di parte, islamici, comunisti, chiunque voglia una mano mi chiama». Alla Facoltà di Belle Arti gli studenti affollano il campus, malgrado sia vacanza. Il manifesto della mostra «Semplici sogni» pone una domanda antica come Orazio: «Può l' artista vivere in un mondo suo, dimenticando le immagini che lo circondano, libero da confini e orizzonti?». Abbas Hameed, musicista vestito come il cantante Elton John, beve Pepsi sotto un sicomoro: «La libertà per me è la fine delle mazzette, fino a 150 mila dinari, che si devono pagare per incidere un disco. Io mi sento come i ragazzi francesi nel 1968, voglio tutto, il pane e le rose, un lavoro e l' arte». Abbas sogna con il suo amico, Kassem Hagj, pittore: «Ho 25 anni, alla mia età Renoir era già un maestro. Abbiamo perduto troppo tempo, io ho fretta. Gli americani devono ripristinare l' ordine, li abbiamo accolti con speranza ma, se la gente vede caos, rimpiangerà Saddam. Io? Io no. Mi ricordo quando con Abbas bisbigliavo tra gli alberi. Quattro mesi fa una conversazione così ci spediva al boia». Da nessuna parte la voglia di libertà si respira di più che nelle redazioni dei nuovi giornali. Hassan Fattah Pasha, il direttore di Iraq Oggi, viene da una famiglia di industriali: «Mio nonno faceva le coperte, il suo nome qui è sinonimo di calduccio, nel 1964 hanno nazionalizzato la fabbrica e sono cresciuto a San Francisco. Ma sono iracheno e mi sono precipitato a tornare. Il giornale le canta chiare a tutti, abbiamo attaccato Bremer per la criminalità, mi hanno perfino arrestato perché protestavo contro i controlli militari. Ho 32 anni, ci hanno già rubato tutto qui in redazione, ma è una avventura bellissima». Hassan è il più vecchio, il suo vice Mustafa Alrawi, discute con la stessa passione delle armi di sterminio di massa e delle scarpe Nike ultimo modello che ha ai piedi: «I ladri le hanno risparmiate, altrimenti mi sarei ucciso. Americani ed europei dibattono di armi segrete che non si trovano. A me interessa poco ormai capire perché la guerra, che è stata terribile, è scoppiata. Adesso siamo tutti iracheni, dobbiamo usare la libertà, gli americani hanno la responsabilità di far funzionare il Paese. E anche voi dell' Ue potreste darci una mano, anziché fare gli offesi». Dunque tra occupazione militare, guerriglia, saccheggi e inefficienza nascono germogli di società civile? I ragazzi del Bollettino di Bagdad non hanno soldi per un ufficio e hanno stabilito la redazione in un Internet café. David Anders, 22 anni, viene da Detroit. Accanto a lui lo studioso iracheno Nasir Tabit, diventato panettiere per necessità. David: «Io detesto Bush e spero perda le elezioni, ma non posso che augurare libertà a questa gente meravigliosa». Nasir: «Sono un nazionalista di sinistra. Odiavo gli americani, voglio che l' occupazione militare finisca subito. Ma lavorando con David ho imparato a dire: "Odio Bush, non gli americani"». Hassan, Mustafa, David e Nasir passano giorno e notte a bere tè e cercare di capire cosa sta succedendo. Ogni settimana, religiosamente, vanno al Centro di Studi Strategici fondato dal professore Sadoun al Durame, dopo anni di esilio. Rischiando la vita tra sparatorie, coprifuoco, Ali Baba e posti di blocco, il Centro conduce i suoi primi liberi sondaggi politici, coordinati in sette città dal sociologo Munqit al Yarmuk. «I risultati sono sorprendenti - spiega Munqit -: il 32,6 per cento degli iracheni è ottimista sul lavoro di Paul Bremer e il 32 pessimista. Gli altri incerti. Le richieste più urgenti: ordine per il 39 per cento e lavoro per il 38. Quanto alla politica l' 80 per cento vuole la repubblica, il 19,7 la monarchia. Ma la fiducia non è eterna: il 94 per cento dei cittadini lamenta i disordini. Veda, il 59 per cento degli intervistati crede che gli Usa siano qui per i loro interessi, ma il 41 per cento crede che al tempo stesso possano fare gli interessi dell' Iraq. Ecco la base di buona fede che Washington rischia di disperdere. Oggi l' 82,8 per cento chiede agli Usa di restare, o sarebbe la guerra civile, ma il 51 per cento auspica che si ritirino in basi fuori città, quando il nuovo governo sarà formato. E sa chi vogliono ad amministrare l' Iraq? Tecnocrati, appoggiati dal 62,7 per cento dei consensi. L' 85 per cento non si fida della politica». Sembra fatta, un Iraq civile con un governo dei tecnici e gli alleati nelle basi, come in Italia e Germania nel dopoguerra. Ma Bremer sta epurando l' élite dei 4 milioni di iscritti al partito, 435 docenti universitari sono stati licenziati, Munqit teme «un processo troppo drastico che azzoppi la classe dirigente. Mia figlia a 14 anni era iscritta al partito, per andare al ginnasio. Per questo il 75 per cento chiede che finiscano le purghe e che solo i dirigenti implicati in azioni criminali siano licenziati». Alla facoltà di Lettere, il preside del dipartimento di inglese, professor Maan al Taie, camicia impeccabile nell' afa, sta riscrivendo i corsi per il primo anno accademico di libertà. La biblioteca è stata bruciata, i computer rubati, le serrature rimosse dalle porte: «Non voglio un corso anti Saddam. Voglio che gli studenti capiscano che non devono più ripetere a pappagallo come ai tempi del regime, devono essere critici, pensare da soli. Dirò loro che un artista non è tutta politica, Pound e Pirandello erano fascisti ma restano grandi. Per questo al simposio organizzato per il poeta al Jawahri, morto in Siria dopo anni di esilio in Europa, ho parlato del poeta, non del dissidente. Siamo malati di totalitarismo, la gente non ha pazienza, gli americani non possono ricostruire in pochi mesi. Dico ai ragazzi: attenti, la rabbia è creativa, ricordate la beat generation, il neorealismo, gli angry young men inglesi. Libertà è anche poter ignorare la politica e occuparsi di letteratura». Ecco l' aria che tira a Bagdad occupata nell' estate 2003, guerra a bassa intensità, inefficienza, crimine, cultura e speranze di libertà ad altissima intensità. Sottovoce, l' intellettuale Yousef al Sharif conclude: «In Iraq si gioca una partita osservata con angoscia dai regimi arabi, tutti, filo o antiamericani che siano. Se la democrazia mette radici, sia pur timide, in Iraq, per tanti dittatori del Medio Oriente si avvicina la fine. Per questo tifano contro. Prima gli americani falliscono, meglio è per loro». Sorride deciso: e nell' idea che una democrazia possa davvero funzionare, oggi, a Bagdad, ci si sente più liberi che in tante annoiate capitali d' Occidente.

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