Da La Repubblica del 29/07/2003

In cella un americano su 143

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON – È NATA una metropoli nuova e invisibile, nell’America del 2003, che nessuna mappa indica. La “grande casa”, come si chiama il carcere nello slang di chi la popola, è divenuta un quartiere, poi un paese, oggi una città dove vivono, se è vita, 2.166.260 cittadini, il record nella storia della repubblica americana e delle democrazie più avanzate nel rapporto fra popolazione e carcerati.

Sarebbe la quarta città americana per numero di abitanti, subito dopo New York, Los Angeles, Chicago, e prima di Houston, Philadelphia e Phoenix, questa Atlantide degli uomini scomparsi.
Neppure i ricercatori dei centri sulla giustizia, né i funzionari dei Ministero che ha diffuso questi censimenti sanno spiegare fino in fondo perché il popolo della città invisibile sia esploso fino a queste cifre.
Ancora nei tardi anni ‘70 (presidente Jimmy Carter) il numero era rimasto stabile, nonostante le maree d’immigrati, i riflussi dell’economia, il pendolo della politica fra destra e sinistra. Dal 1925 al 1979, dunque per oltre un mezzo secolo, era rimasto stabile attorno ai 200mila individui. Poi, dal 1980 in poi, l’esplosione. Raddoppiato nel 1985. Quadruplicato nel 1990.
Decuplicato oggi, con il record storico degli oltre 2 milioni. Gli Stati Uniti d’America sono forse divenuti una nazione di criminali negli ultimi vent’anni della loro storia?
La droga, rispondono i sociologi. Le decadi ‘80 e ‘90 segnano l’alluvione degli stupefacenti che hanno scatenato il giustizialismo terrorizzato della gente, soprattutto bianca. I neri sono l’armata che popola le carcere americane: il 10% dei cittadini di colore fra i 25 ei29 anni, dunque 450mila giovani afro americani, sono in questo momento dietro lo slammer, altra espressone di argot carcerario, la “porta che sbatte”. È stata la politica, rispondono invece i politici e gli studiosi del “Progetto sentenza”, il gruppo non partisan che fornisce i dati sui quali si basa il dibattito nazionale.

Non ci sono “prigionieri politici” nelle carceri Usa, anche se qualche detenuto nelle guardine di città o nelle stie da polli di Guantanamo potrebbe rispondere che essere incarcerati senza prove, senza incriminazione ufficiale, senza diritti costituzionali, senza calendari di udienze e di processi, sfiora pericolosamente la definizione di prigioniero politico. Ma molti di quei 665.745 nelle galere di provincia, del i milione e 400 nelle prigioni statali e federali e dei 110.284 minorenni in riformatori, sono prigionieri “della” politica, della risposta politica che la classe dirigente ha dato al panico degli anni ‘80 e ‘90.
Nella loro continua ricerca di facili slogan ideologici e dei motivi da usare per rimpiazzare l’ormai spuntata promessa di «get tough», di essere duri con il comunismo l’ondata di delinquenza da droga (responsabile del 49% del boom carcerario) ha offerto il surrogato del «get tough on crime», essere duri con il crimine. Nacque così l’inutile e costosissima «guerra alla droga» proclamata da Ronald Reagan negli anni ‘80, con sfoggio di operazioni militari alle frontiere, guerra perduta, come provano i prezzi in continua diminuzione per le strade d’America.
Ma il “giustizialismo” americano, non più frenato dai pudori sociologici e politically correct (è colpa della società cattiva, del sistema) in voga negli anni ‘70, non è stata un’arma brandita soltanto da un partito, da un presidente o da un gruppo. La necessità di fare qualcosa, o di far finta di fare qualcosa, ha travolto governatori e presidenti di destra e di sinistra. Per mostrarsi «duro con i criminali», Bill Clinton corse a casa, nel suo stato dell’Arkansas, alla vigilia di un’elezione primaria nel febbraio del 1990, per ordinare l’esecuzione di un detenuto incapace di intendere al punto di chiedere ai carcerieri di «mettere da parte?) il gelato, per «mangiarlo dopo».
Dopo l’esecuzione.
E mentre un altro giovane e ambizioso governatore del Texas, George W. Bush, imperversava durante gli anni '90 con il suo ineguagliato ritmo di 150 esecuzioni all’anno, negli Stati, a cominciare dalla democratica California, entrava in vigore una delle più sciagurate leggi della decade giustizialista americana, la legge dei «three strikes you’re out», presa dal linguaggio del baseball, tre colpi e sei fuori. Anzi, dentro. Togliendo ogni discrezionalità ai giudici, la legge imponeva che al recidivo per lo stèsso reato, dovesse essere raddoppiatala pena. E, al terzo crimine, anche diverso, la condanna fosse, obbligatoriamente, a!l’ergastolo.
Così, allo spacciatore pizzicato tre volte a vendere la sua “merda” (di nuovo, nello slang della strada) sarebbe toccato l’ergastolo, o, dopo una revisione della legge, almeno 25 anni. Di fatto una condanna a morire in carcere, visto che nel frattempo, l’età media dei prigionieri o dei recidivi arrivati al terzo colpo ha continuato a salire, fino ai 40 anni di oggi. La norma dei “tre colpi”, l’imposizione ai giudici di pene carcerarie obbligatorie e non discrezionali, l’aumento dei delitti soprattutto violenti e quindi capaci di infiammare il pubblico, hanno cominciato a popolare la Atlantide carceraria.
L’unica ipotesi di inversione, nel clima ancora implacabile che l’11 settembre non ha certa mente raffreddato, è il prezzo terrificante che questa popolazione in tuta arancione sta esigendo. In questi annidi disastro finanziario, con gli Stati americani oppressi da deficit aggravati dal taglio continuo di sussidi decisi da Washington per scaricare su di loro il peso del buco nel bilancio federale, i 25mila dollari annui che sono il costo del mantenimento di un detenuto sono una spesa intollerabile.
Alcuni Stati hanno già annullato le leggi dei “tre falli e dentro”. Altri fanno pressione sui giudici perché alleggeriscano le pene detentive. Il ministero della Giustizia sembra più ansioso di dare la caccia ad arabi e immigrati sospetti, piuttosto che a spacciatori nei ghetti: Certamente, osserva asciutto il centro studi della carcerazione, il popolo della “grande casa” non può continuare a crescere del 3% all’anno, come ha fatto tra il 2001 e il 2002 e decuplicarsi ogni vent’anni. Altrimenti, prima della fine del XXI secolo, ci saranno più americani in galera che americani liberi per le strade.

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