Da Famiglia cristiana del 25/05/2003

Viaggio nel paese che tenta di superare gli orrori della guerra. Ma non ovunque

Quel che resta del Congo

Mentre a Kinshasa si insedia un governo di transizione, nell’est si combatte ancora. Un’altra guerra etnica, altri morti e altri profughi. E tutto intorno lo sfascio.

di Luciano Scalettari

Bunia, Congo orientale, maggio. Scappano: famiglie intere, bambini. Arrancano col fagotto in testa verso l’aeroporto, su per la salita tortuosa di terra rossa. Là ci sono gli ugandesi. Là ci sono i caschi blu della Monuc, la missione Onu per il Congo. La tensione è palpabile. La processione durerà per giorni.
Bunia, regione dell’Ituri. Uno degli ultimi angoli d’inferno della Repubblica democratica del Congo. Il resto dell’immenso Paese africano è pressoché pacificato. Gli ultimi focolai del conflitto sono qui, ai confini orientali. Qui dove sono iniziate tutte le guerre che hanno messo in ginocchio l’ex Zaire. Da Est, nel 1996-97, è iniziata la marcia trionfale di Laurent Kabila, che rovesciò Mobutu. Da Est è partita la seconda guerra congolese, il 2 agosto 1998, che ha disintegrato il Paese e provocato fra tre e quattro milioni di vittime, la più sanguinosa dopo la seconda guerra mondiale. A Bunia siamo arrivati con un aereo della Monuc, e ripartiamo con l’ultimo volo prima che l’aeroporto venga chiuso per molti giorni. Una piccola finestra che permette di vedere il dramma che si è consumato e quello che si prepara.
Quattromila facce attendono in silenzio, guardando la pista e i soldati: quelli congolesi che arrivano a rinforzo dalla capitale Kinshasa, quelli ugandesi che si ritirano. La Monuc è presente con 700 caschi blu uruguaiani, mandati in fretta e furia per evitare il vuoto lasciato dall’esercito ugandese.
Quattromila facce che sperano in un volo della salvezza che li porti via. Altri 6.000 disperati si sono rifugiati nelle sedi della Monuc. Sono rimasti là giorno e notte, pensando di essere più protetti.

UN’ALTRA CACCIA ALL’UOMO
Sono di etnia hema, la minoranza che sta subendo la caccia all’uomo da parte dei lendu. Gli hema sono pastori di ceppo nilotico, i lendu sono bantu e contadini. Sembra ripetersi il copione che oppose tutsi e hutu in Ruanda. Ma sul conflitto tribale soffiano ancora una volta forze oscure che giocano una cinica partita sul ricco tavolo del Congo: questa povera gente calpesta un suolo ricco di ogni ben di Dio: terre fertili da coltivare e – sotto – oro, coltan, e tanto petrolio.
La gente scappa dai machete, dalla paura di essere fatta a pezzi, come accade da tempo, un giorno sì e uno no. Gli eventi precipitano: un giorno 50 morti, un altro 120. Quello che succede oggi nell’Ituri e nelle regioni dell’alto e basso Kivu è accaduto ieri nel resto del Paese. Nel 1998 il fragile regime di Laurent Désiré Kabila aveva risvegliato gli appetiti di tanti sulle “scandalose” risorse naturali del Congo. Sono nati come funghi gruppi di guerriglia che si sono strappati a vicenda fazzoletti di territorio, sostenuti dai Paesi vicini e dal denaro delle multinazionali interessate ai giacimenti. Intanto, a Kabila padre (ucciso in un attentato) succedeva al Governo il figlio, il trentenne Joseph.
Per cinque anni questo Paese è stato uno dei più agghiaccianti mattatoi del pianeta. Nell’oblio più totale si è continuato a morire di guerra, di fame, di Aids, di malaria. A fianco dei soldati locali hanno combattuto quelli di altri sei Paesi: Ruanda, Uganda e Burundi al fianco dei ribelli; Zimbabwe, Angola e Namibia con Kabila. Soldataglie fuori controllo sono state libere di commettere ogni atrocità e violenza. Finché il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha mandato, tardi e con pochi mezzi, una missione di osservatori civili e militari. E nel contempo è stata avviata un’estenuante trattativa di pace, che ora è alle mosse finali.

UN GOVERNO DI TRANSIZIONE
Kabila e i principali signori della guerra tenteranno di formare insieme un Governo di transizione. Gli eserciti stranieri hanno lasciato il Paese. Ma Uganda e Ruanda continuano ad avere un controllo indiretto del territorio. Per ragioni di sicurezza, dicono. Tuttavia, guardando i dati sulle loro esportazioni appare per lo meno sospetto l’incremento della “produzione” di oro e diamanti. Un fenomeno tanto vistoso che l’anno scorso il Ruanda è stato il secondo esportatore al mondo di coltan (minerale essenziale nell’industria aerospaziale, telefonica e dei computer). Senza averne un grammo nel suo territorio.
A oriente si combatte, mentre a Kinshasa si insedia il Governo di transizione. Fra due anni, il Congo dovrebbe celebrare le sue prime elezioni democratiche dal 1960, anno dell’indipendenza.
A Bunia è in atto l’ultimo capitolo di questo dramma. Dopo ogni risoluzione dell’Onu che imponeva agli ugandesi il ritiro dall’Ituri, all’improvviso nelle mani dei lendu e degli hema sono comparse armi leggere e pesanti. E sono scoppiati disordini, massacri e saccheggi. Ai primi di maggio, però, gli ultimi 5.000 ugandesi se ne sono andati davvero. E in queste settimane Bunia è stata messa a ferro e fuoco: si è combattuto strada per strada, mettendo di nuovo in fuga decine di migliaia di civili stremati.
Cos’è rimasto del Congo? Questo viaggio ci ha portato attraverso tutto il Paese: dalla capitale fino a Goma, devastata nel gennaio 2001 dall’eruzione del vulcano Nyiragongo, passando per la foresta equatoriale. È la prima missione del “Progetto Africa”, iniziativa promossa da Wwf Italia, dall’ong Coopi di Milano e dal premio Ilaria Alpi di Riccione. Un progetto di sensibilizzazione che continuerà negli anni, per rendere meno dimenticato il continente più martoriato e depredato del pianeta.
Del Congo resta ben poco. «Vent’anni fa ero qui a Bunia», racconta Giovanni Di Mauro, coordinatore sanitario di Coopi, che sta gestendo 12 centri nutrizionali nella zona. «Questa sembrava una cittadina svizzera, con le strade ornate di aiuole e gli alberghi con piscina. Oggi... guardatela: è uno sfacelo».

LA CAPITALE SULL’ORLO DEL COLLASSO
Bunia non è diversa dal resto del Congo. Nel Paese le strade non esistono più. Restano l’aereo o il battello. Per andare da Kinshasa a Kikwit (500 chilometri), 10 anni fa si impiegava una giornata. Oggi ci vuole una settimana, se va bene. La guerra, oltre a creare due milioni e mezzo di sfollati, ha accelerato il fenomeno dell’inurbazione: la capitale – già ingolfata da cinque milioni di abitanti – durante la guerra ha raddoppiato la popolazione. Kinshasa è sull’orlo del collasso. Basta percorrere la strada dell’aeroporto per rendersene conto: 40 chilometri dove si susseguono i quartieri più poveri. È un brulichio di persone, bambini di strada, gente che cerca di vendere e comprare qualcosa. Il faut se débrouiller, “bisogna arrangiarsi”, era il motto di Mobutu. Non è cambiato, i congolesi lo sanno bene.
E infatti, a Kinshasa, barattando e rubacchiando, in qualche modo ci si arrangia. Chi ha pagato il prezzo più pesante della guerra è la popolazione del Nord e quella dell’Est, occupati dai ribelli. Ora che le agenzie umanitarie tornano dopo anni nei teatri del conflitto scoprono livelli di miseria terribili.
«Dovevo riaprire gli ospedali e centri di salute di Boende e Ikela, nel cuore della foresta», dice Matteo Frontini, cooperante di Coopi. «L’unico modo per arrivare là era la piroga, seguendo il corso del Tshuapa. La gente era stupita divedere un bianco. Non ne vedevano da cinque anni». In foresta lo chiamano “il Livingstone del Duemila”, perché Matteo ha dovuto affrontare sei giorni di piroga navigando dall’alba al tramonto per giungere a Boende, e una settimana di motocicletta («guadando i fiumi con la moto issata su canne di bambù», spiega) per arrivare a Ikela. «In certi tratti di foresta dovevo aprirmi la strada col machete», dice. «E in città si doveva stare attenti a dove mettere i piedi».
Mine. Ikela ne è piena. Ce ne sono ovunque. La nostra macchina si ferma a qualche centinaio di metri dall’ospedale. «Meglio proseguire a piedi», dice Martino Destefanis, attuale responsabile del progetto. Alcuni ordigni sono ben visibili sul ciglio della strada. I reparti sono pieni: 50 posti letto e lavoro giorno e notte. «In tre mesi avevamo riabilitato le strutture», spiega Matteo. «Ma affluivano pochi pazienti. Poi abbiamo capito: la gente non aveva più vestiti, si vergognava a venire nuda all’ospedale. Se non hai nemmeno i vestiti, significa che non hai più nulla».

LO SCHELETRO DELLA CATTEDRALE
Goma, al confine col Ruanda, ha subito non solo gli sfregi della guerra ma anche quelli del vulcano. L’aereo che plana dal lago Kivu frena deciso, perché la lava s’è mangiata un pezzo di pista. La città è tagliata in due e il maestoso Nyiragongo, col suo pinnacolo di fumo, sembra aver srotolato uno smisurato tappeto nero. Lo strato di lava, spesso da uno a tre metri, ha spazzato viale case dei poveri, fatte senza fondamenta e con mattoni seccati al sole.
Della cattedrale resta solo lo scheletro ma, ironia della sorte, è quasi intatta la grande villa di Mobutu, affacciata sul lago. Questa cittadina di confine, che 10 anni fa contava 150.000 abitanti e ospitava un milione e mezzo di profughi ruandesi, oggi è lievitata a 800.000 persone. Gli ultimi arrivati grattano la crosta nera cercando di recuperare qualcosa dalle case rimaste sepolte e tirando su baracche di legno sul manto di lava.
Ma, in tanto sfacelo, notiamo increduli gruppi di donne che zappano le aiuole e piantano fiori sgargianti. «Abbiamo prodotto sei milioni e mezzo di piante», dice con semplicità Bisidi Yalolo, il responsabile del Wwf di Goma. «I fiori vengono dai nostri vivai. Belli, no?».

Sullo stesso argomento

Articoli in archivio

Africa nera oggi il ballottaggio per l’elezione presidenziale, schierati 18 mila caschi blu contro i brogli e le milizie
Congo, democrazia all’uranio
Si vota sotto stretta osservazione occidentale: il Paese è una miniera senza fine
di Domenico Quirico su La Stampa del 29/10/2006
«Kabila cercò di uccidermi»
Il vicepresidente Bemba racconta la sua versione dei giorni di fuoco in Congo Kinshasa
di Stefano Liberti su Il Manifesto del 15/09/2006

News in archivio

Rapporto di Amnesty International
Congo RD: "Bambine e bambini soldato abbandonati"
su Amnesty International del 11/10/2006
Burundi: iniziato il rimpatrio dei rifugiati congolesi
Ancora oggi 420mila cittadini della Repubblica Democratica del Congo sono rifugiati in diversi Paesi
su Agenzia Fides del 11/10/2006
 
Cos'� ArchivioStampa?
Una finestra sul mondo della cultura, della politica, dell'economia e della scienza. Ogni giorno, una selezione di articoli comparsi sulla stampa italiana e internazionale. [Leggi]
Rassegna personale
Attualmente non hai selezionato directory degli articoli da incrociare.
Sponsor
Contenuti
Notizie dal mondo
Notizie dal mondo
Community
• Forum
Elenco degli utenti

Sono nuovo... registratemi!
Ho dimenticato la password
• Sono già registrato:
User ID

Password
Network
Newsletter

iscriviti cancella
Suggerisci questo sito

Attenzione
I documenti raccolti in questo sito non rappresentano il parere degli autori che si sono limitatati a raccoglierli come strumento di studio e analisi.
Comune di Roma

Questo progetto imprenditoriale ha ottenuto il sostegno del Comune di Roma nell'ambito delle azioni di sviluppo e recupero delle periferie

by Mondo a Colori Media Network s.r.l. 2006-2024
Valid XHTML 1.0, CSS 2.0