Da Corriere della Sera del 14/09/2003
Nel covo degli irriducibili: «Così combattiamo gli invasori»
Deserto di Falluja, tra i ragazzi del sedicente «Esercito di Maometto»: «Anche Saddam è nostro nemico»
di Lorenzo Cremonesi
FALLUJA (Iraq) - Le mani tremano quando leggono il loro proclama in arabo. «Nel nome di Allah misericordioso. Non sono morti quelli che sono caduti nel nome di Dio. Essi vivono con lui, felici in paradiso». Leggono da un foglietto spiegazzato, accovacciati sul materasso di questa abitazione a due piani avvolta nella penombra, con le persiane abbassate, solo uno spiraglio per spiare nel caso arrivasse una pattuglia americana. Sono tre guerriglieri armati: i kalashnikov con il colpo in canna nelle mani, un paio di caricatori alla vita. Uno di loro ha anche due bombe a mano infilate nella bandoliera. «Apparteniamo a Jeish Mo- hammad, l' esercito di Maometto», annunciano con lo sguardo fanatico dei ragazzini che hanno trovato una ragione per sacrificare tutta la loro vita, sino alla morte. All' inizio sono tesi: temono che il giornalista straniero possa essere un agente americano. Conta solo leggere il loro messaggio e sparire subito tra le dune del deserto, che arrivano sin qui davanti alla porta di casa. Poi però si lasciano andare, fuori la strada resta vuota e, con l' aiuto di qualche dollaro, accettano di parlare. «Non combattiamo per denaro e neppure per la notorietà - dice uno di loro -. Vogliamo la libertà, quale popolo accetterebbe di essere occupato dagli americani senza rivoltarsi?». Avete nostalgia del passato regime? «Non siamo con Saddam Hussein - replica un altro - perché in verità ha massacrato decine di migliaia di musulmani in tutto l' Iraq». Eccoli, i giovani che hanno impugnato le armi per fare la guerra agli americani. Li abbiamo incontrati ad Albu Issa, una cittadina di case prefabbricate voluta dal regime di Saddam Hussein alla metà degli anni Ottanta nella regione di Falluja, circa 150 chilometri a ovest di Bagdad. Qui nel cuore del cosiddetto «triangolo sunnita» sono stati lanciati il maggior numero di attacchi contro le truppe della Coalizione guidata dagli americani, che dal primo maggio a oggi hanno provocato la morte di 148 soldati Usa (10 di più che nei venti giorni di guerra tra il 20 di marzo e il 9 aprile) e di fatto causato difficoltà inaspettate per la ricostruzione del Paese. Il loro movimento, Jeish Mohammad, ha rivendicato diversi attentati dalla fine di giugno. C' è chi lo ha letto come una sorta di apertura da parte degli oltranzisti della vecchia dittatura per cercare di reclutare militanti tra le fila islamiche. Ma loro ci tengono a sottolineare la completa estraneità dal regime. «Saddam Hussein è stato un alleato di Washington. E' un nostro nemico», dicono. E Osama Bin Laden? «Non lavora con noi. Però diamo il benvenuto a tutte le forze islamiche che combattono i nemici negli Stati Uniti». L' ultima operazione militare l' hanno lanciata giorni fa, non molto lontano, sulla strada provinciale tra Falluja e Ramadi. «Abbiamo sparato contro un convoglio di jeep. Abbiamo ucciso due americani e distrutto almeno un veicolo», raccontano. Però tengono a sottolineare che sono contrari all' attentato contro il quartier generale dell' Onu a Bagdad del 19 agosto (almeno 23 morti) come a quello contro l' Ambasciata giordana. Fuori il caldo meno oppressivo del mezzogiorno annuncia già il primo autunno. Siamo in pieno deserto, ma è ormai possibile visitare a ogni ora del giorno questa cittadina abitata per lo più da fedelissimi del vecchio partito Baath. Albu Issa è in verità un covo di irriducibili. E i militanti di Jeish Mohammad sono tollerati solo per un motivo: combattono gli americani, che sono comunque il nemico da battere. Basta una veloce lettura degli slogan dipinti di fresco sui muri: «Non c' è dignità senza Saddam», è scritto davanti al supermarket principale; «Saddam è l' eroe di tutti gli arabi», vedi in un angolo. La maggioranza dei circa 6.000 abitanti lavoravano nelle industrie militari, chiamate (viva la fantasia) «Industrie Saddam». I personaggi più in vista sono stati imprigionati da un pezzo. E' il caso per esempio di Fajar Muthar Halaf, iscritto al Baath della prima ora, capo dei guardiani del complesso industriale, catturato dagli americani 53 giorni fa. «L' hanno arrestato e noi non lo abbiamo mai più visto», esclama la moglie Widad, che superata la prima diffidenza non esita a rimpiangere i «bei tempi passati» della dittatura. «Sappiamo solo che è rinchiuso nel perimetro dell' aeroporto internazionale di Bagdad, la Croce Rossa dice che ha il numero 12093». E, quando alla radio locale arriva l' annuncio del ferimento di altri tre marines in seguito all' attentato contro il loro convoglio nel cuore della capitale, Widad non riesce a nascondere un rapido sorriso.
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