Da Corriere della Sera del 19/09/2003

Il «rammendo» mal riuscito dell’articolo 15 e la privatizzazione già bocciata dai vertici Rai

di Dario Di Vico

ROMA - Le sorti della legge Gasparri sono appese alle decisioni che l’ufficio politico dell’Udc prenderà mercoledì 24 settembre. Sembra di essere tornati ai tempi della Prima Repubblica quando dall’esito di un appuntamento interno a un partito dipendeva il futuro della coalizione di governo. Ma tant’è. Tra una settimana Marco Follini e i suoi dovranno decidere se puntare i piedi perché la nuova legge sull’emittenza recepisca i loro emendamenti oppure se si può andare avanti con limitate modifiche al testo approvato in luglio dal Senato. Le novità che l’Udc vorrebbe apportare accolgono alcune istanze degli editori della carta stampata (rivedere il perimetro del Sic, il Sistema integrato della comunicazione e conteggiare le telepromozioni dentro il computo dell’affollamento pubblicitario) e dei proprietari delle tv locali (introducendo il credito d’imposta per chi investe pubblicitariamente su di loro). Si tratta di emendamenti che sicuramente non piacciono a Mediaset, e Fedele Confalonieri non ne fa mistero. Alla riunione del 24 l’Udc rischia parecchio. Al suo interno oggi albergano almeno tre posizioni. Quella del segretario Follini (e ovviamente del presidente della Camera Pier Ferdinando Casini) che vuole conciliare la battaglia di principio sull’emittenza con la salvaguardia della stabilità della coalizione, quella di alcuni deputati come Gianfranco Rotondi ed Emerenzio Barbieri - subito etichettati all’interno come «berluschini» - contrari a nuovi emendamenti («la Gasparri è un incrocio pericoloso», hanno avvertito) e, infine, quella dell’intransigente Bruno Tabacci che già ai primi di agosto aveva chiesto al partito di impegnarsi per cambiare la legge. Qualunque sia l’esito della riunione del 24 di singolare c’è che - potenza della nemesi - il successo politico di Gasparri è legato al giudizio di Follini, che avrebbe dovuto essere il ministro delle Comunicazioni del governo di centrodestra. Più in generale si può osservare come attorno all’approvazione della legge sull’emittenza si sia andato strutturando una sorta di nocciolo duro della Casa della Libertà, che comprende Forza Italia, i berluscones di An (Ignazio La Russa e Gasparri), i centristi critici della gestione Follini. Più defilata la Lega che subordina qualsiasi altra materia al semaforo verde sulla devolution.

Mappe politiche a parte, il testo approvato dal Senato presenta palesi incoerenze. Prendiamo l’articolo più importante, il 15, che regola il Sic e di fatto stabilisce i tetti antitrust. La Camera, per effetto del voto favorevole sull’emendamento presentato dal diessino Giuseppe Giulietti, l’aveva stravolto e a Palazzo Madama la maggioranza è stata costretta a riformularlo ex novo . Ma chi l’ha riscritto non è stato sufficientemente attento a raccordarlo con il resto della normativa. Il rammendo non è riuscito. Gli addetti ai lavori, infatti, segnalano una contraddizione tra il «nuovo» 15 e un articolo precedente ed ad esso strettamente collegato, il 2.

Le tipologie di aziende indicate dall’uno e dall’altro sono sorprendentemente differenti. In un elenco ci sono i concessionari di servizi di telecomunicazione - Telecom Italia e i suoi concorrenti - e nell’altro no. Gli editori di libri e i produttori cinematografici sono in una lista e nell’altra no. E lo stesso vale per «le imprese fonografiche». La contraddizione rende ardui i conteggi e di fatto inapplicabili le disposizioni e i limiti anti-concentrazione. L’incoerenza è dovuta a una scelta di fondo: si parla di sistema integrato della comunicazione, ma si è cercato di tener separate telefonia e tv. Il motivo? Prendere le misure a Telecom Italia ed evitare il più possibile che il colosso telefonico diventasse, dal punto di vista della legge, un concorrente diretto di Mediaset. Sarà un caso, ma anche un commissario dell’Authority, molto ascoltato in Forza Italia, Antonio Pilati in un recente articolo sul Sole 24 Ore ha ammesso che «il contestato Sic» risente «di qualche oscurità».

Passando alla Rai, finora il tema della privatizzazione non ha appassionato deputati e senatori, che ne hanno discusso in maniera sciatta. Eppure la Gasparri prevede entro il 31 gennaio 2004 - tra pochi mesi dunque - «l’avvio del procedimento di alienazione della partecipazione dello Stato nella Rai Spa». Nessun acquirente potrà rastrellare più dell’1% delle azioni e una singola cordata tra più soggetti non potrà comunque cumulare più del 2% dei diritti di voto. Il modello disegnato dal centro-destra è quello delle banche popolari, la Rai dovrebbe diventare una compagnia ad azionariato diffuso. Peccato però che, qualche giorno fa, a criticare seccamente l’ipotesi prevista dalla Gasparri siano stati proprio i vertici della Rai. Il presidente della Rai Lucia Annunziata e il direttore generale Flavio Cattaneo, per una volta concordi, hanno consegnato al Parlamento una memoria in cui definiscono «riduttivo» il limite dell’1% «perché può costituire un freno all’ingresso di partner industriali o di grandi investitori finanziari».

La privatizzazione, per Annunziata e Cattaneo, dovrebbe seguire le logiche di mercato «senza lacci e lacciuoli e senza particolari vincoli all’acquisizione». A patto però che sia identificabile sul mercato «il detentore della maggioranza delle azioni». Ma non è tutto. La memoria prosegue sostenendo che una quotazione in Borsa richiede due condizioni: che la società assicuri redditività al capitale investito e che la quotazione sia effettuata in condizioni di mercato favorevole. «Oggi - hanno scritto presidente e direttore generale - queste due condizioni non esistono». E siccome è assai difficile dar loro torto, la privatizzazione alla Gasparri parte con il piede sbagliato. L’unica possibilità per vendere azioni di Rai Popolare, che non promettono dividendi, è farlo a prezzi da discount.

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