Da La Repubblica del 01/10/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/pontemessina/pontemess...

Se la sinistra scopre che il ponte è di sinistra

di Francesco Merlo

FOSSE pure vero che non c'è convenienza economica, il Ponte sullo Stretto di Messina andrebbe comunque costruito, senza arroganza verso le ragioni dei ragionieri ma con un filo d'ironia, visto che nessuno ha fatto i conteggi alla Torre Eiffel o alla Statua della Libertà ma tutti capiscono che senza Torre e senza Statua a Parigi e a New York ci sentiremmo persi. Solo grazie ai simboli infatti uno spazio dove ci smarriamo diventa un luogo nel quale ci ritroviamo.

Non è insomma per ragioneria che si fanno i ponti, ma per ridurre le distanze. Anche in bocca, tra due denti, si fa un ponte. Tra due feste si fa un ponte. Si fanno ponti per i sospiri, e persino il ballerino di Lucio Dalla "balla su una tavola tra due montagne". Non c'è civiltà che non sia stata edificata attraverso i ponti, non c'è bellezza di città senza ponti, negli Usa come in Portogallo, in Svezia come in Francia, in Scozia come in Australia e in Giappone. Del resto chi fa ponti, in qualche misura diventa pure papa, pontifex, pontefice.

Si fanno ponti anche come sberleffo alla natura, quella dei terremoti e quella dei vulcani, e si fanno ponti per dare ordine e bellezza al paesaggio che non è fatto di mitili e di mostri omerici, ma è fatto dagli uomini e dai loro progetti, perché nessun uomo ha mai visto la Terra senza gli uomini. Il Ponte insomma è bello, ed è sempre e comunque sviluppo, è progresso, è darsi la mano, è il binario per il pendolino e per l'Eurostar che si sono fermati a Eboli, è l'adeguamento delle autostrade al flusso di automobili e di camion.

Il Ponte sconvolge l'arretratezza del sistema viario perché accelera e parifica. E anche con i bilanci in rosso, il Ponte sarebbe comunque ricchezza, risorse, opportunità straordinarie, nuovi posti di lavoro. Alla fine insomma questo Ponte sullo Stretto è l'opera più bella e più avanzata che l'Italia possa realizzare, è un risarcimento al nostro Sud, ed è - deve essere - un'operazione laico simbolica keynesiana, la fine di un handicap, la fusione di Messina e Reggio nella Città dello Stretto, come una nuova Costantinopoli. Perciò il Ponte è di sinistra, anzi è quanto più di sinistra si possa fare (non dire, ma fare) oggi in Italia.

E infatti, a sorpresa, la sinistra meridionalista sta riscoprendo le ragioni del Ponte sullo Stretto e, senza troppa timidezza, avanzando per riviste e per convegni, si fa ponte verso il Ponte di Berlusconi, vorrebbe spingerlo a passare dal virtuale al reale, posare insieme con lui quella prima pietra prevista nel prossimo mese di maggio, e magari pure sfilargliela di mano, perché i ponti si possono anche discutere, ma poi, alla fine, si fanno, e mai per ragioni contabili, visto che nessuno le ha mai applicate al Ponte di Brooklyn, e si viaggia magnificamente dentro il tunnel che attraversa la Manica, malgrado i bilanci siano ancora drammaticamente in rosso.

Torna dunque il Ponte di sinistra o, meglio, la sinistra del Ponte, proprio quando il più grandioso progetto del governo Berlusconi, il più meridionalista dei suoi progetti, maltrattato dalla burocrazia di Bruxelles, rischia di rivelarsi, già nei prossimi vertici europei della prima metà d'ottobre, un ponte di sabbia o meglio un ponte di carta. Aggredito dall'arcaismo retorico del più candido, ingenuo e peggiore ambientalismo, e trascurato dallo stesso Berlusconi che lo ha usato come strumento propagandistico, uno dei suoi tanti belletti, il Ponte è infatti, come tutte le trovate berlusconiane, un'impresa, ma solo nella dimensione virtuale e mediatica, la dimensione dell'inesistenza.

E però l'impresa, perfetta per simulazioni, prove e controprove, disegni, grafici e colonne sonore, non può diventare reale senza gli attrezzi politici e culturali, la voglia di potenziare il territorio, e il rischio degli imprenditori privati che, sia pure con il sollievo dei crediti agevolati della Banca Europea (Bei), dovrebbero affrontare il 60 per cento di un investimento che si avvicina ai 6 miliardi di euro. Ed è inutile cercare un punto mediano tra la virtualità catastrofista della sinistra economicista che prevede, testualmente, "un Ponte frequentato solo dai gabbiani" e la virtualità berlusconiana che lo immagina come "una macchina per soldi" capace di "risolvere i più grandi problemi del Mezzogiorno".

Opposte previsioni di spesa si fronteggiano sugli spalti dei giornali avversari, ma sono dati che non andrebbero contrapposti ma invece giustapposti. I vantaggi infatti non andrebbero assolutizzati e gli svantaggi non andrebbero drammatizzati. Bisognerebbe lavorare per ridurre l'area degli svantaggi e accrescere quella dei vantaggi. Questa è la politica.

Ebbene, che la politica, la cultura politica di sinistra, voglia riscoprire il Ponte, aprirsi, articolarsi e magari da subito riprendersi quel Ponte che aveva fatto sognare i suoi migliori meridionalisti, che la sinistra voglia infilarsi nel progetto Ponte, lo si scopre con gioia leggendo il numero 41 della rivista del neomeridionalismo di sinistra, che si chiama appunto Meridiana e che al Ponte è interamente e variamente dedicata, con un bellissimo saggio introduttivo di Lea D'Antone. Con l'idea dinamica, non scontata, che non esiste il Mezzogiorno ma esistono i Mezzogiorni, dove non tutto è sempre e comunque arretrato, la rivista è marcata Donzelli, editore di tutto rispetto e rivista-manifesto degli storici meridionalisti cinquantenni in cerca del simbolo di una generazione.

E difatti leggendola si capisce bene come il Ponte sullo Stretto possa rappresentare, finalmente meglio e più del terrorismo, il simbolo della generazione del Sessantotto. Sono infatti loro che lo vogliono; siamo noi che, giunti alla maturità, vogliamo i ponti mentre prima volevamo dittature e bardature, chiusure e costruzioni anti. Il Ponte per la sinistra italiana potrebbe significare dunque anche il giro di volta della maturità, perché questa generazione del Sessantotto è ancora alla ricerca del suo simbolo, e il ponte è la conclusione logica di quel percorso, di quell'avventura fatta tutta per rottura di ponti.

E la mafia? A Palermo non ci sono ponti, la mafia non è nata né sopra né sotto i ponti. Certo, la mafia c'è e qualsiasi grande investimento corre il rischio della mafia. Ma forse, contro la mafia, non bisogna più investire nel Sud? E non sarebbe, il rinunciare al progresso e allo sviluppo per paura della mafia, la maniera più vile di arrendersi alla mafia? Per alcuni la mafia cresce nella povertà e nel sottosviluppo, per altri nella ricchezza e nello sviluppo, c'è chi la lega al grano e alla terra arida, chi all'arancia e all'acqua. A Gela la mafia è arrivata con l'industria ma a Villalba, Mistretta, Montelepre, Corleone non c'è mai stata industria.

La verità è che la mafia si combatte con polizia e magistratura, con la pazienza, l'eroismo e il rischio d'impresa che è fatto di innovazione e dunque anche di ponti. I testi di Morale ci insegnano del resto che l'angoscia d'esser nati può diventare forza criminale quando va verso la disoccupazione, o forza propositiva, ergon, quando va verso il lavoro.

Infine, e di nuovo, Berlusconi. Si può volere il Ponte che vuole Berlusconi e cominciare a farlo insieme a lui. È questo il solo modo per sottrarlo alla sua ormai proverbiale e furba dabbenaggine, il modo per introdurre garanzie, rapporti con il sindacato, e alla fine fare del progetto Ponte un Parlamento con maggioranza e minoranza, prendere il controllo di una grandiosa operazione che non è solo economica e deve essere gestita da tutta la cultura politica italiana, perché riguarda tutta l'Italia, la simboleggia tutta, Ponte tra le due Italie, tra le due culture, tra le due esigenze.

Il Ponte che, come la rivista di Piero Calamandrei, unifica senza confondere, e addirittura rinsalda le identità perché le fa diventare identità aperte contro le identità chiuse che ti fanno orgoglioso e spocchioso, ma non ti portano da nessuna parte.

Ecco: il Ponte, per la sinistra, è anche un ponte contro la spocchia, contro la sicumera, contro il complesso di inferiorità coperto di muscoli, il Ponte al posto dei baffi di ferro e dei girotondi, il Ponte per non smarrirsi nello spazio astratto dell'ideologia, nell'Italia-manicomio che, pur di fare un'altra pernacchia a Berlusconi, vorrebbe volare da Scilla a Cariddi con la liana e l'urlo di Tarzan.

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