Da Il Sole 24 Ore del 24/10/2003

Dagli Stati Uniti 20 miliardi di dollari Dal resto del mondo (per ora) molto meno

di Alberto Negri

MADRID - Dentro, nell'azzurro vaporoso della sala delle conferenze di Madrid, il segretario generale dell'Onu Kofi Annan pronuncia l'appello ai Paesi donatori: «Tutti vorremmo che all'Irak fosse restituita al più presto la sovranità ma non possiamo aspettare quel giorno per iniziare la ricostruzione». Adesso che anche Onu e Banca mondiale amministrano il loro fondo, il segretario generale, sulle ali della risoluzione 1511 approvata la settimana scorsa dal Consiglio di sicurezza, è disposto a concedere elegantemente il suo viatico all'occupazione americana dell'Irak. Fuori prevale pure un altro realismo, quello immediato e concreto degli uomini d'affari: «Per arrivare a Baghdad bisogna passare per Washington», dice secco e senza giri di parole Bart Fisher cofondatore dell'Usa-Irak Business Council, una delle lobby che si occupano attivamente dei contratti e degli appalti iracheni. I soldi veri, quelli realmente disponibili, per ora infatti circolano da un'altra parte, non a Madrid. La sfida della ricostruzione per le imprese americane è già cominciata sul campo, con i fondi controllati da Washington. Uno finanziato con le vendite del petrolio iracheno e gestito dal governatore Paul Bremer, l'altro destinato a incassare tutta, o una parte consistente, dei 20 miliardi di dollari chiesti al Congresso da Bush e che deputati e senatori, in contrasto con la Casa Bianca, vorrebbero convertire al 50% in prestiti. Tutti sanno, perché lo insegnano anche le precedenti "ricostruzioni", dai Balcani all'Afghanistan, che un conto sono le cifre dichiarate disponibili alle conferenze - una gara di interessata generosità - e un altro sono i soldi che effettivamente arrivano a destinazione. In Irak il prossimo anno verrà investita una cifra non superiore ai 5 miliardi di dollari secondo le previsioni degli esperti dell'Onu e della Banca mondiale, perfettamente informati sui meccanismi che frenano le spese dei fondi per la ricostruzione. Sono meccanismi ben conosciuti dal presidente afghano Hamid Karzai, in tournée con il cappello in mano tra le cancellerie internazionali a chiedere come mai non sono ancora arrivati i soldi promessi dai vari Governi alla Conferenza di Berlino. Anche gli iracheni sono, comunque, realisti, almeno quanto Annan e gli uomini d'affari. Il presidente del Governo transitorio, Alì Allawi, ha incontrato i rappresentanti di 300 imprese riuniti in un meeting parallelo alla conferenza per rassicurarli che l'Irak sarà terra di business: «Nessun settore dell'economia sarà chiuso agli investimenti stranieri, con la sola eccezione di quello petrolifero. Ma ci rendiamo conto - ha aggiunto - che per ora l'afflusso di società e capitali è stato frenato dai problemi di sicurezza». Nelle ovattate sale di Madrid l'Irak (dove ieri a nord di Baghdad un altro soldato americano è stato ucciso, il 205° dalla fine della guerra) appare molto lontano. Ma è proprio un imprenditore iracheno, Mowaflaq Al Rubahia, a ricordare che «il 60% della popolazione dopo 13 anni, da quando entrò in vigore l'embargo per l'occupazione del Kuwait, vive ancora sotto razionamento, più del 50% non ha accesso all'acqua potabile o a medicinali di prima necessità, oltre il 60% non è occupata». «Gli iracheni - aggiunge Rubahia - devono mangiare tutti i giorni e non possono aspettare troppo la generosità al rallentatore delle conferenze internazionali». Forse qui si è rapidamente dimenticato che l'Irak, per molti bisogni primari, si regge ancora sulla famosa risoluzione «oil for food», petrolio contro cibo, lo strumento economico amministrato dalle agenzie dell'Onu, che prima della guerra distribuiva razioni alimentari a quasi 20 milioni di persone e che dal primo aprile ha inviato in Irak oltre due milioni di tonnellate di cibo, negoziando 290 contratti per un valore di 900 milioni di dollari. Secondo uno studio del Programma alimentare mondiale sono almeno cinque milioni gli iracheni che vivono in uno stato definito di povertà cronica: la risoluzione «oil for food», in scadenza a novembre, sarà quasi sicuramente rinnovata per affrontare l'emergenza. Mentre a Madrid si negozia il contributo alla ricostruzione, con qualche annuncio a effetto tutto da verificare, gli Stati Uniti si tengono stretti i loro fondi. «Noi siamo operativi sul terreno, non vedo perché dovremmo rinunciare ai nostri strumenti finanziari», dice Andrew Natsios, direttore di UsAid, l'agenzia americana per la cooperazione e lo sviluppo che quest'anno ha già speso in Irak circa 2 miliardi e mezzo di dollari in commesse e appalti dove la parte del leone l'hanno fatta, naturalmente, le aziende Usa. Assente alla riunione di Madrid era proprio la Betchel, la compagnia Usa che ha vinto un appalto iniziale nei grandi lavori infrastrutturali per 680 milioni poi aumentato a oltre un miliardo di dollari. E non c'era neppure la chiacchierata Halliburton, un tempo diretta dal vicepresidente Dick Cheney, l'unica compagnia occidentale che ha rimesso piede nei pozzi petroliferi iracheni. Se gli americani sono in prima fila, gli inglesi appaiono defilati, anche se è stata proprio una società britannica ad aggiudicarsi il contratto più importante nel settore, ultra-sensibile in questo momento, della sicurezza. Un tempo definiti mercenari, oggi guardie private, sono queste le sentinelle nei cantieri di una ricostruzione difficile.

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