Da La Stampa del 30/10/2003
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/news_high_tech/archivio/0310/nge-vote.asp
Un gruppo di hacker e ricercatori dimostra l’inaffidabilità dei sistemi di e-vote più diffusi negli USA
Il voto elettronico non funziona
Le aziende incriminate sporgono querela, ma parte una campagna online di disobbedienza civile
Ce l’avevano venduto come l’ultima frontiera della democrazia diretta, ma evidentemente non è così. L’e-vote, il sistema per votare da casa attraverso un clic del proprio mouse, non funziona. Anzi, è talmente pieno di bachi che potrebbe sovvertire il risultato delle elezioni, favorendo persino eventuali brogli elettorali. A diramare l’allarme è stato lo scorso marzo un hacker che, penetrando nei server della Diebold Election System, l’azienda che gestisce i sistemi di votazione elettronica di 38 stati americani, è incappato in 15.000 pagine di documenti che dimostravano come i dirigenti della società fossero ben consci dei difetti presenti nel loro software di e-vote e, ciononostante, continuassero a venderlo e a promuoverlo.
Una sventura simile è capitata pochi giorni fa alla principale concorrente della Diebold, la Sequoia Voting Systems, che a causa di una svista ha reso disponibile a qualunque navigatore il codice sorgente (e cioè il cuore operativo) del suo programma di e-vote. Prontamente analizzato dai ricercatori della Standford University, il software è apparso carente dal punto di vista della sicurezza e in qualche modo predisposto alla falsificazione dei risultati. Pronta è arrivata la risposta delle due aziende che, trincerandosi dietro la rigida tutela del copyright statunitense, hanno minacciato di voler querelare chiunque diramasse informazioni riservate e destinate a un uso interno. La Diebold in particolare, a seguito di un articolo-denuncia apparso sul New York Times, ha inviato in questi giorni centinaia di lettere di diffida a tutti i siti e provider che ospitavano i documenti incriminati o link agli stessi, pretendendone l’immediata rimozione.
Il tutto però ha provocato il classico effetto-boomerang, dal momento che migliaia di siti sparsi in tutto il mondo si sono offerti di ripubblicare il materiale censurato. Gli studenti dello Swarthmore College in Pennsylvania, tra i primi a occuparsi della vicenda, hanno lanciato tramite i server dell’università la prima campagna di disobbedienza civile elettronica, raccogliendo il pieno supporto della più importante associazione americana che difende i diritti dei navigatori, la Electronic Frountier Foundation. Secondo il suo portavoce Will Doherty è necessario “difendere il diritto di chiunque a linkare o pubblicare informazioni sui sistemi di voto elettronico che sono vitali per il dibattito sul processo democratico”. Una posizione accolta dagli attivisti di Indymedia San Francisco, che si sono rifiutati di sopprimere il materiale scottante.
L’intricata vicenda, che probabilmente finirà in tribunale, ha comunque reso pubbliche le inadeguatezze del sistema elettorale computerizzato statunitense, molto più suscettibile di errori e di modifiche di quel che sembri. Su queste basi, prendono un’altra luce episodi preoccupanti come le elezioni della Florida nel 2002, quando gli elettori cliccavano per eleggere McBride come governatore e vedevano invece il proprio voto attribuito a Jeb Bush; per non parlare del Texas, dove i tre candidati repubblicani vittoriosi in diversi collegi ricevettero misteriosamente lo stesso numero di preferenze: 8.181. O dei fin troppo sospetti riconteggi in Florida che strapparono la vittoria dalle mani di Al Gore per consegnarla in quelle dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Sull’evoluzione democratica attraverso i sistemi digitali è persino uscito un libro, Black Box Voting della studiosa Bev Harris, che rivela come l’e-voting sia in grado di muovere finanziamenti miliardari. Basti pensare alla recente approvazione dell’Help America Vote Act, che ha permesso lo stanziamento di 4 miliardi di dollari per l’acquisto di nuove macchine touch-screen.
Per fortuna la vigilanza degli americani rimane alta. Un nutrito gruppo di professori universitari, programmatori, politici e semplici cittadini ha diffuso sul web una “Risoluzione sul Voto Elettronico”, dove si chiede che venga bloccata l’installazione di pc per l’e-vote nei seggi elettorali in mancanza di una certificazione di affidabilità da parte di un organismo super partes. Visto quello che sta succedendo, la vecchia scheda elettorale forse non è proprio da buttar via.
Una sventura simile è capitata pochi giorni fa alla principale concorrente della Diebold, la Sequoia Voting Systems, che a causa di una svista ha reso disponibile a qualunque navigatore il codice sorgente (e cioè il cuore operativo) del suo programma di e-vote. Prontamente analizzato dai ricercatori della Standford University, il software è apparso carente dal punto di vista della sicurezza e in qualche modo predisposto alla falsificazione dei risultati. Pronta è arrivata la risposta delle due aziende che, trincerandosi dietro la rigida tutela del copyright statunitense, hanno minacciato di voler querelare chiunque diramasse informazioni riservate e destinate a un uso interno. La Diebold in particolare, a seguito di un articolo-denuncia apparso sul New York Times, ha inviato in questi giorni centinaia di lettere di diffida a tutti i siti e provider che ospitavano i documenti incriminati o link agli stessi, pretendendone l’immediata rimozione.
Il tutto però ha provocato il classico effetto-boomerang, dal momento che migliaia di siti sparsi in tutto il mondo si sono offerti di ripubblicare il materiale censurato. Gli studenti dello Swarthmore College in Pennsylvania, tra i primi a occuparsi della vicenda, hanno lanciato tramite i server dell’università la prima campagna di disobbedienza civile elettronica, raccogliendo il pieno supporto della più importante associazione americana che difende i diritti dei navigatori, la Electronic Frountier Foundation. Secondo il suo portavoce Will Doherty è necessario “difendere il diritto di chiunque a linkare o pubblicare informazioni sui sistemi di voto elettronico che sono vitali per il dibattito sul processo democratico”. Una posizione accolta dagli attivisti di Indymedia San Francisco, che si sono rifiutati di sopprimere il materiale scottante.
L’intricata vicenda, che probabilmente finirà in tribunale, ha comunque reso pubbliche le inadeguatezze del sistema elettorale computerizzato statunitense, molto più suscettibile di errori e di modifiche di quel che sembri. Su queste basi, prendono un’altra luce episodi preoccupanti come le elezioni della Florida nel 2002, quando gli elettori cliccavano per eleggere McBride come governatore e vedevano invece il proprio voto attribuito a Jeb Bush; per non parlare del Texas, dove i tre candidati repubblicani vittoriosi in diversi collegi ricevettero misteriosamente lo stesso numero di preferenze: 8.181. O dei fin troppo sospetti riconteggi in Florida che strapparono la vittoria dalle mani di Al Gore per consegnarla in quelle dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Sull’evoluzione democratica attraverso i sistemi digitali è persino uscito un libro, Black Box Voting della studiosa Bev Harris, che rivela come l’e-voting sia in grado di muovere finanziamenti miliardari. Basti pensare alla recente approvazione dell’Help America Vote Act, che ha permesso lo stanziamento di 4 miliardi di dollari per l’acquisto di nuove macchine touch-screen.
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