Da La Repubblica del 31/10/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/cronaca/brigaterosse/movdavanz...

Il movimento e le doppie verità

di Giuseppe D'Avanzo

SI VOLEVANO ascoltare soltanto parole responsabili e, se si vuole, finalmente coraggiose. Dopo la spigolosa analisi di Sergio Segio ("Le Brigate rosse, pur ultraminoritarie e isolate, coabitano nel Movimento e hanno infiltrato il sindacalismo di base"), quelle parole non si sono ancora ascoltate. È un fatto, e lo ha già rilevato Marco Revelli: "Dal Movimento non è ancora venuta una condanna esplicita della violenza e della lotta armata come forma di lotta" (Avvenire, 30 ottobre).

In queste ore si sono sprecati soltanto insulti e tartuferie, e lascio da parte i tentativi di strumentalizzazione di una destra che è tentata dal rappresentare il conflitto sociale, tutti i conflitti sociali, come eversione o atto terroristico (rappresentazione giustamente respinta con sdegno da Guglielmo Epifani).

Non sono, però, le manovre della destra di governo ad affievolire il significato e il peso specifico di quel silenzio, di quel non-detto: le parole più semplici da dire, quelle, non sono state ancora dette.

Conviene muovere da questa considerazione perché è il fondamento che tiene in piedi l'allarmato ragionamento di Sergio Segio. Il nodo della violenza politica come strumento legittimo di lotta, un'idea della politica come forza - e quindi, se degenerata, come violenza - non è stato ancora né sciolto né rimossa negli ambiti più radicali della sinistra, del sindacato, del Movimento.

Dirlo non significa sostenere che Movimento, sindacato e sinistra siano governati da un'idea di politica come violenza né tantomeno, come azzarda qualcuno a destra, che le politiche di quelle forme organizzate di opposizione sociale incubino il terrorismo. Vuol dire soltanto che un'idea di violenza come possibile esito della politica non è illegittima in quegli ambiti e chi ne è portatore non è privato del certificato di cittadinanza che gli permette di dire: sono nel sindacato, nel Movimento; sono di sinistra. Se questo è il problema, appare inutile (perché ovvio) replicare che le Brigate rosse sono contro il sindacato, contro il movimento, contro la sinistra.

Nessuno ha detto il contrario. Nessuno può dire il contrario se si è un buona fede o si tiene appena a mente il nostro recente passato. O soltanto i papielli che hanno rivendicato gli assassini di Massimo D'Antona e Marco Biagi. In questi documenti è esplicito che il solo "nemico" da assediare, dividere e colpire è il sindacato confederale e la "negoziazione neocorporativa", concertazione o Libro Bianco che sia.

Non si fanno sconti, in quei documenti, a una sinistra rappresentata come "fazione" desiderosa di rivendicare per sé, su di sé "gli interessi generali della borghesia imperialista". Ma detto questo, cambia qualcosa della questione che la sinistra più radicale dagli anni Ottanta rifiuta di affrontare? Il nodo da sciogliere non è chi è politicamente vittima delle violenze terroristiche, né l'"a chi giova", ma da quale idea della politica nasce quel terrore. Sergio Segio, con parole che sono anche una terribile testimonianza personale, sostiene che le ragioni della violenza sono ancora iscritte e non negate nel dna di un radicalismo di sinistra che rifiuta, per convenienza o miopia, di fare i conti con la sua storia e con le tragedie che ha prodotto.

È quel rifiuto che impedisce oggi al Movimento di dire semplici parole di condanna della violenza come metodo di lotta politica. Sono le parole che il radicalismo di sinistra ancora non riesce a dire.

Ne ha dato una dimostrazione, ieri, anche un uomo e un politico accorto come Fausto Bertinotti, che a Torino fu in anni di piombo protagonista della lotta al terrorismo. Il leader di Rifondazione "esclude che i centri sociali siano il luogo di reclutamento del nuovo terrorismo". Ammette che "nelle componenti marginali del Movimento possano esserci zone d'ombra dove la critica radicale può sfociare in un'inimicizia profonda". Come nel 1977, quando durante le manifestazioni i giovani facevano il gesto della P38 con le dita.

Inimicizia. Bertinotti non riesce a scegliere, pur così accurato come è nell'uso delle parole, le formule più adeguate a disegnare quegli anni e, per fortuna, uno spicchio ristrettissimo di questi anni. La parola più acconcia non è inimicizia, ma odio o violenza.

La differenza che c'è tra i significati di inimicizia e odio è il luogo non fisico ma culturale e politico dove le Brigate rosse possono coltivare la residua possibilità di resistere e rigenerarsi nelle forme organizzate della politica. Senza quel consenso maggioritario del passato, con un'attenzione ridotta all'osso, ridotta a poche decine di militanti, ma pur sempre adeguata a riprodurre nuclei operativi, metodologia e, purtroppo, vittime innocenti come D'Antona, Biagi, Petri. È quello spazio culturale che tiene ancora in piedi la "doppiezza" che Gabriele Polo, sul Manifesto, riconosce come immagine di continuità storico-ideologica nell'album di famiglia della sinistra italiana. È quella "doppia verità", una ufficiale da affermare pubblicamente, una segreta da coltivare in ambiti ristretti, che impedisce alla sinistra di fare i conti con il proprio passato e con i residui della propria cultura novecentesca. È di questa doppiezza che hanno vissuto e vivono i brigatisti di oggi.

È sufficiente guardare più da vicino le loro storie personali, la loro vita concreta per rendersene conto. Simone Boccaccini, l'ultimo degli arrestati, operaio al Comune di Firenze, aveva in tasca la tessera della Rappresentanza sindacale di base (che ieri lo ha espulso). Viveva accanto a una compagna, Eleonora Giuntini, che dice di se stessa "sono una pacifista convinta che rifiuta ogni forma di violenza". Ma in quel movimento pacifista, incapace di dire parole contro la politica come violenza, e in alcuni settori tentato da "pratiche" di disobbedienza e violenza, anche Boccaccini ha trovato spazio. Ha potuto coltivare la sua doppiezza. Come Marco Mezzasalma, dal 1994 al 1996 delegato di fabbrica della Fiom-Cgil.

È giunto il tempo che quella sinistra, che al terrorismo è stata argine pagando anche un tributo di sangue, trovi le parole per liberarsi delle scorie che ancora ne inquinano il linguaggio, la cultura e la politica. Sono parole che deve a se stessa, al suo impegno per il Paese, al suo futuro e non a una destra che per un pugno di voti usa il terrorismo contro le lotte del sindacato.

Sullo stesso argomento

Articoli in archivio

Polemica dopo l'annuncio di Berlusconi contestato dalla sinistra come propagandistico
"Duecento terroristi arrestati" Palazzo Chigi insiste: è verità
Ma conteggia anche gli scarcerati e gli assolti
di Claudia Fusani su La Repubblica del 28/11/2005
 
Cos'� ArchivioStampa?
Una finestra sul mondo della cultura, della politica, dell'economia e della scienza. Ogni giorno, una selezione di articoli comparsi sulla stampa italiana e internazionale. [Leggi]
Rassegna personale
Attualmente non hai selezionato directory degli articoli da incrociare.
Sponsor
Contenuti
Notizie dal mondo
Notizie dal mondo
Community
• Forum
Elenco degli utenti

Sono nuovo... registratemi!
Ho dimenticato la password
• Sono già registrato:
User ID

Password
Network
Newsletter

iscriviti cancella
Suggerisci questo sito

Attenzione
I documenti raccolti in questo sito non rappresentano il parere degli autori che si sono limitatati a raccoglierli come strumento di studio e analisi.
Comune di Roma

Questo progetto imprenditoriale ha ottenuto il sostegno del Comune di Roma nell'ambito delle azioni di sviluppo e recupero delle periferie

by Mondo a Colori Media Network s.r.l. 2006-2024
Valid XHTML 1.0, CSS 2.0